Counseling

Il counseling in una relazione d'aiuto medico-paziente. L'aspetto umano del medico.


 

Introduzione

 

Essere medico, oggi, non è semplice, si devono fornire risposte, motivare, comunicare diagnosi e terapie, interpretare bisogni ed i pazienti sono sempre più esigenti ed “informati”.

Il medico è spesso “parte del problema” del paziente, rappresenta colui che deve “dare risposte”. Queste risposte possono essere comunicate in molti modi, dando diverse visioni di sé e motivando diversamente il paziente. Tecnicamente tra i compiti del medico non vi è solo quello di informare sulla diagnosi e sulla terapia, ma anche quello di essere “terapeuta” come figura, di dare assistenza a chi si rivolge a lui con fiducia, avendolo spesso preferito ad altri colleghi, ma soprattutto deve comunicare con chi è nello “status” di malato, di persona che unisce al disagio della patologia, quello dell’accettazione della stessa. Il ruolo terapeutico del medico come “figura” prevale su quello del medico come semplice “prescrittore direttivo”. È per questo che occorre attivare un processo di consapevolezza e di supporto per conferire “maggior potere” al paziente in senso positivo, facendosi percepire e migliorando gli aspetti della relazione. Questo “maggior potere” produrrà un cambiamento da parte del paziente, in termini di accettazione della diagnosi e di accettazione della terapia, ma soprattutto potrà produrre le energie che gli sono necessarie. Questa brevissima, se vogliamo filosofica missione, oggi è decisamente rilevante in una professione, quella medica, dove il servizio reso al paziente è determinato anche dalla “Qualità percepita” da parte dello stesso, aumentandone così la motivazione alla cura e la conseguente efficacia.

Il Counseling permette a due interlocutori che dialogano, di instaurare una relazione ottimale, per “alleggerire” il peso di preoccupazioni, ansie, paure. Molto importante, per il counselor, far percepire una modalità di ascolto partecipativa, sensibile e di condivisione dei temi affrontati.

La concezione del Counseling, come efficace metodologia di comunicazione e relazione dialogica, è già diffusa in medicina nel nostro Paese ma si deve ancora molto approfondire e sviluppare professionalmente.

Il Counseling, infatti, non è solamente una professione a sé, ma è anche una componente di molte altre professioni nelle quali conta il rapporto interpersonale e la qualità della comunicazione e l’empatia.

Il Counseling medico fu ispirato dal medico e psicoanalista inglese Balint. Quanto emergeva dalla sua esperienza era che la competenza tecnica del medico, ancorché necessaria, non bastava. Anzi, in alcune circostanze poteva addirittura essere di ostacolo alla costituzione di una buona relazione medico-paziente, limitando alcuni aspetti essenziali del processo di cura. Da allora l’esperienza del Counseling medico si è sviluppata e ampliata, coinvolgendo argomenti di carattere filosofico e bioetico e culturale

"Il medico è la medicina", si dice spesso, e una parola giusta, detta al momento giusto può essere più terapeutica di molte altre cure, tanto quanto una diagnosi comunicata senza la adeguata delicatezza può rivelarsi più deleteria del problema organico in sé. Uno degli obiettivi del Counseling, quindi, è anche quello di educare i professionisti, quelli operanti in campi a stretto contatto col pubblico, a una educazione più consapevole


 

Introduzione al counseling

“Ognuno di noi è unico e irripetibile, ha talenti e potenzialità che possono essere riconosciuti e sviluppati. La volontà è la capacità di dare fiducia a ciò che si è e di avviarsi verso ciò che si può diventare.”

(Marcella Danon)

 

Il termine Counseling (o anche Counselling secondo l'inglese britannico) indica un'attività professionale che tende ad orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità del cliente, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le capacità di scelta.

Il Counselor è un esperto in relazioni, pertanto si occupa di favorire le relazioni intrapersonali ed interpersonali , il processo di cambiamento e dell’attività di aiuto a persone, gruppi ,organizzazioni e comunità.

Il sostantivo counseling deriva dal verbo inglese to counsel, che risale a sua volta dal verbo latino     consulo-ĕre, traducibile in "consolare", "confortare", "venire in aiuto".Quest'ultimo si compone della particella cum ("con", "insieme") e solĕre ("alzare", "sollevare"), sia propriamente come atto, che nell'accezione di "aiuto a sollevarsi". oppure “cum” “solus” nel senso di essere con chi è solo. Per consolare occorre avere qualcosa da raccontare ed entrare in relazione con l’umanità dell’altro. Il counseling, in questa luce, concerne la natura delle relazioni umane.

Il concetto di umano precede il concetto di persona, così come il concetto di umanità precede il concetto di personalità. L’essere umano diventa persona nella relazione con l’altro e sviluppa la sua identità biologica attraverso le occasioni a lui proposte dagli incontri con le persone essenziali nel corso della sua vita. La sua identità emerge dalla sua natura umana e prende forma nella costruzione della sua personalità. L’approccio del counseling all’umano si configura come processo di relazione con l’umano presente nelle soggettività che il counselor incontra.

In senso tradizionale, il counseling è un processo di interazione fra due persone,il counselor ed il cliente,il cui scopo  è quello di “abilitare il cliente a prendere una decisione riguardo a scelte di carattere personale o a problemi o difficoltà specifiche che lo riguardano direttamente” ( Burnett 1977). La solitudine, il dubbio, l’aggressività , la sessualità, la morte, la mancanza di autostima sono i più comuni esempi di difficoltà.

Pur non svolgendo un’attività terapeutica il counselor attraverso l’offerta di tempo, attenzione, accettazione, comprensione, rispetto, autenticità, empatia, con il sostegno di specifiche  metodologie, promuove lo sviluppo del cliente aiutando quest’ultimo a trovare la voglia, i modi, la fiducia, le risorse per svolgere la propria esistenza in modo costruttivo.

Il Counseling si basa sull’ intuizione rogersiana secondo la quale, se una persona si trova in difficoltà il miglior modo di venirle in aiuto non è quello di dirle cosa fare quanto piuttosto quello di aiutarla a comprendere la sua situazione e a gestire il problema assumendo da sola e pienamente la responsabilità delle scelte eventuali.

Il processo di Counseling enfatizza l’importanza dell’autopercezione, dell’autodeterminazione e dell’autocontrollo: il risultato finale è misurabile attraverso “ il grado in cui si riesce a rendere una persona capace di azioni razionali e positive, a renderla più soddisfatta, più in pace con se stessa, più capace di condurre una vita serena e socialmente integrata ( Zavallone 1977).

Fare Counseling vuol dire soprattutto trasmettere la capacità di sapere, saper fare ma soprattutto saper essere. Compito del counselor è quello di assistere il cliente nella ricerca del suo vero sé e poi di aiutarlo a trovare il coraggio di essere quel sé ( Rollo May ) e favorire l’integrazione tra ciò che il cliente vorrebbe essere, ciò che è e ciò che pensa di essere.

Il Counselor non fa terapia, non opera cure di nessun genere, non fa psicoterapia, nè consulenza, non insegna psicologia e genericamente non usa mai il prefisso psico se non acquisito per competenza.

Il Counseling, infatti, differisce dalla psicoterapia ,in quanto l’individuo in tal caso è portatore non di un problema specifico ma di un disturbo strutturale di personalità , rispetto al quale occorre invece operare una ristrutturazione globale del  proprio modo di essere e dell’intero quadro cognitivo.

La figura professionale del Counselor nasce negli anni trenta in America e risponde a tutte quelle persone che pur "non desiderando diventare psicologi o psicoterapeuti svolgono un lavoro che richiede una buona conoscenza della personalità umana." (Rollo May) Nel caso specifico del Counselor non sarà sufficiente una adeguata formazione teorica ma occorrerà che le teorizzazioni siano in parte esperite attraverso un "training professionale individuale e/o di gruppo", che garantisca il superamento da parte del Counselor di quella tendenza dell’io ad "esercitare un counseling sulla base di propri, più o meno rigidi, pregiudizi". (Rollo May).

Ma è senz'altro Carl Rogers che getta le fondamenta del Counseling come lo intendiamo noi oggi con il suo testo: “Counseling e Psicoterapia” (1940) e la successiva definizione della Psicologia esistenziale. Nel 1952 nasce in America la Counseling Association, sull'onda di un incredibile sviluppo del Counseling come servizio di consulenza ed educazione.

In Europa il Counseling nasce negli anni 70, principalmente in Gran Bretagna, come servizio di orientamento pedagogico e strumento di supporto nei servizi sociali e nel volontariato. Vengono create successivamente due importanti associazioni di riferimento, la British Association for Counseling            ( BAC ) e nel 1994 l'European Association for Counseling ( EAC ).

In Italia, nel 1993 si costituisce la S.I.Co., Società Italiana di Counseling, che si prefigge l'obiettivo di riunire in un unico organismo i Counselor e le organizzazioni che si occupano di Counseling e nel 1996 viene costituita la FAIP, la“FEDERAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI ITALIANE DI PSICOTERAPIA che ha lo scopo di raccogliere in un’associazione comune le organizzazioni professionali impegnate nel rapporto di aiuto alla persona, nonché singoli professionisti, censiti in categorie ben distinte.

La FAIP si articola infatti in due diverse divisioni assolutamente autonome per quanto riguarda gli indirizzi, le linee guida e gli ambiti professionali, ciascuna delle quali ha un’autonoma rappresentanza democratica.

Tali commissioni sono:

-La Divisione Psicoterapia;

-La Divisione Counseling.

 

In quali contesti è possibile operare il counseling?

 

In teoria non esiste un campo di attività specifico per il Counseling. Se pensiamo al ruolo del Counselor come la persona che favorisce lo sviluppo e l’utilizzazione delle potenzialità già insite nel cliente, aiutandolo a superare quei problemi di personalità che gli impediscono di esprimersi pienamente e liberamente nel mondo, ci rendiamo immediatamente conto che tutto questo può avvenire in ogni tipo di contesto. Infatti, in funzione di ciò il Counseling si sta affermando in ogni campo professionale con lo scopo di migliorare le relazioni interpersonali a seconda dei contesti con adeguate formazioni specifiche.

Avremo dunque, con le dovute variazioni di contesto:

•Counseling individuale, di coppia, familiare, di gruppo

•Counseling scolastico.

•Counseling aziendale (piccole, medie e grandi industrie, o in ogni caso unità lavorative strutturate)

•Counseling sessuologico (relativo alla coppia e alle varie tendenze sessuali o alle violenze e agli abusi sessuali)

•Counseling per persone in stato avanzato di malattia (AIDS Cancro)

Esistono, inoltre,il Counseling Psicologico”, che prevede la diagnosi psicologica, l’orientamento, la prevenzione, il sostegno, la riabilitazione, è una attività di esclusiva competenza del ruolo professionale dello psicologo (che avrà seguito a sua volta una formazione per Counselor).

E ancora “il Counseling Medico”che indica le abilità e le qualità necessarie in ambito sanitario per facilitare la comunicazione nella situazione di cura; tale attività prevede la diagnosi fisica, prescrizione di farmaci, esami specialistici, ricoveri ed è di pertinenza esclusiva del medico (che anche in questo caso  avrà seguito una formazione per Counselor).

 

 

 

 


 

Definizione della "Figura Professionale del Counselor".

 

Il Counselor è la Figura Professionale che, avendo seguito un corso di studi almeno triennale, ed in possesso pertanto di un diploma rilasciato da specifiche scuole di formazione di differenti orientamenti teorici, è in grado di favorire la soluzione di disagi esistenziali della sfera emotiva che non comportino tuttavia una ristrutturazione profonda della personalità.

L'intervento di Counseling può essere definito come la possibilità di offrire un orientamento o un sostegno a singoli individui o a gruppi, favorendo lo sviluppo e l'utilizzazione delle potenzialità del cliente. All'interno di comunità: ospedali, scuole, università, aziende, comunità religiose, l'intervento di Counseling è mirato da un lato a risolvere nel singolo individuo il conflitto esistenziale o il disagio emotivo che ne compromettono una espressione piena e creativa, dall'altro può inserirsi come elemento facilitante il dialogo tra la struttura e il dipendente.

Tratto dal Codice deontologico della Federazione PREPOS:

Il professionista formato ad esercitare la professione del Counseling è chiamato “ Counselor”. Il Counselor è il professionista che mediante ascolto, sostegno e orientamento, migliora le relazioni interpersonali ( la relazione di ogni persona con se stessa) ed extrapersonali (le relazioni nella coppia, nella famiglia, nei gruppi, nelle formazioni sociali e nelle istituzioni).

Questa semplice definizione del counseling, proposta da PREPOS ed accettata nel Convegno Nazionale della FAIP del 12 febbraio 2006, descrive l’operatività di una professione il cui esercizio richiede abilità relazionali, conoscenza di sé e delle proprie emozioni e competenze comunicative.

Non è una professione pedagogica, medica, giuridica, sociologica, psicologica, psicoterapeutica, assistenziale, spirituale, religiosa, economica, aziendale, morale, scolastica, politica, filosofica, del benessere, dell’estetica, della disabilità, della mediazione interpersonale, dell’orientamento pur esplicandosi nell’area di lavoro di queste altre diverse professioni.  Il Counseling è piuttosto costituito da una serie di abilità, di esperienze e di comprensioni sul significato della natura umana e della relazione tra uomini. L’attività del Counselor è quella di una educazione, o rieducazione, all’umanità nel rapporto che il cliente ha con se stesso, con gli altri e con il Counselor stesso; il Counselor è lo strumento umano per favorire lo sviluppo dell’umanità del cliente.


 

Definizione del Counseling

 

Il Counseling è una relazione d’aiuto che muove dall’analisi dei problemi del cliente, si propone di costruire una nuova visione di tali problemi e di attuare un piano d’azione per realizzare le finalità desiderate dal cliente (prendere decisioni, migliorare relazioni, sviluppare la consapevolezza, gestire emozioni e sentimenti superare i conflitti)

Def. Approvata al Convegno Nazionale Faip ( Federazione delle Associazioni Italiane di Psicoterapia e Counseling) del 2006.

 

Il Counseling è una modalità di relazione, che principalmente accoglie, stimola e da speranza di piena realizzazione di se stessi all’umanità della persona. Focus del Counseling è l’individuo con la sua umanità e spiritualità (intesa come senso e significato dato alle principali sfide della vita). Il Counseling aiuta il cliente ad aiutarsi attraverso l’offerta genuina di tempo, attenzione, onestà, professionalità, congruenza, empatia e anelito a una speranza frutto di scelte consapevoli.

Il Counseling relazionale esistenziale può essere visto come uno strumento per accettare i passaggi dell’esistenza (separazione, morte, felicità, crescita, senso della propria vita, etc). Il Counseling inteso come metodologia per ritrovare se stessi, le proprie speranze, il proprio carattere, i propri valori, i propri schemi di riferimento.

Def. del Dott. Francesco Saviano.

 

Il Counseling è un uso della relazione basato su abilità e principi che sviluppa l’accettazione l’autoconsapevolezza e la crescita. Può essere mirato alla definizione di problemi specifici, alla presa di decisioni, ad affrontare i momenti di crisi, a confrontarsi con i propri sentimenti e i propri conflitti interiori o a migliorare le relazioni con gli altri .rispettando i valori, le risorse personali e la capacità di autodeterminazione.

Def  della British Association for Counselling, 1992

 

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce il Counseling come un processo focalizzato, limitato nel tempo e specifico che tramite il dialogo e l’interazione personale mette in condizione la persona di gestire le difficoltà e potenziare le proprie risorse , creando le condizioni relazionali che contribuiscono al suo ben-essere.

 

Il Counseling è un intervento breve racchiuso in un numero limitato di colloqui (non oltre i 12-15 per ciclo), della durata di 45-50 minuti. Si tratta in genere di un percorso individuale ma, secondo la situazione, può coinvolgere anche la coppia e il gruppo. L’intervento si avvale di metodologie operative flessibili orientate alla definizione di un percorso nel quale il cliente è agevolato nella formulazione di un suo problema e a individuare gli strumenti a disposizione adatti per affrontarlo.

La dimensione temporale è quella del “qui ed ora” centrata sul presente della relazione. La durata complessiva della relazione è quella strettamente necessaria al cliente per raggiungere i suoi obiettivi e dipende in gran parte dalla sua collaborazione e dal suo impegno attivo, anche al di fuori del colloquio di Counseling. Il raggiungimento degli obiettivi determina la conclusione naturale dell’intervento, a meno che non emerga un nuovo bisogno da parte del cliente e si concordi un nuovo ciclo di incontri regolato da un contratto professionale. Tuttavia, in molti casi, è sufficiente un unico ciclo di incontri. La periodicità dei colloqui viene concordata durante il percorso, che si svolge con la garanzia della totale riservatezza, in un ambiante accogliente e confortevole.


 

La personalità del Counselor

 

Il counselor può lavorare solo attraverso se stesso; Adler afferma, infatti: “la tecnica del trattamento deve essere dentro di voi”. Tutto questo presuppone che il professionista conosca prima di tutto molto bene se stesso e non soltanto approcci teorici e aspetti tecnici della sua professione. Significa essere in grado di ri-conoscere e ri-contattare quello che sempre di fronte alla relazione nuova con l’altro in sé prende forma: immagini, fantasie, emozioni, sensazioni. Conoscere se stessi vuol dire per esempio capire come condurre la persona in bisogno verso quella “alleanza terapeutica” che gli permetterà di favorire l’auto-analisi e far luce sui suoi problemi.

Bisogna allora prima di tutto essere consapevoli come Counselor delle proprie risorse e dei propri limiti. Puntare prima di ogni altra cosa a prendere coscienza di eventuali problemi personali, se ve ne sono, che potrebbero influenzare negativamente la relazione terapeutica. Essere consapevoli di quali emozioni, argomenti, situazioni possono metterci a disagio. Verificare se l’essere esposti a emozioni e sentimenti molto intensi (rabbia, paura, dolore, passioni) possano procurare frustrazione, imbarazzo, sofferenza, oppure far rivivere analogie problematiche e non risolte con la propria esistenza. Elementi tutti che, magari inconsapevolmente, potrebbero condurre il Counselor ad assumere atteggiamenti evitanti e inefficaci nella relazione terapeutica.

Conoscere se stessi vuol dire allora imparare a gestire le proprie emozioni davanti a quelle del cliente, e non andare in confluenza con le sue.

Pertanto il Counselor deve essere autentico, una persona reale spontanea e trasparente il cui obiettivo non è stabilire chi o come debba essere il cliente, ma cercare prima di tutto di diventare se stesso, di realizzarsi, inteso come scoprirsi reale per essere sempre più autentico. Questo modo di essere permette una comunicazione aperta con il cliente, senza maschere o finzioni, in cui il counselor condivide ed esprime apertamente se stesso e i propri sentimenti se questi sono utili nella chiarificazione di un pensiero espresso dal cliente. Questa autenticità può e deve essere ottenuta attraverso il superamento da parte del Counselor dei propri più o meno rigidi pregiudizi che non permettono di dimostrare al cliente un’accettazione positiva incondizionata verso la sua unicità e individualità, pronti ad accoglire prima che il suo problema la sua persona. Vedere gli altri attraverso i propri pregiudizi è certamente, secondo Rollo May, il blocco peggiore e più deviante nella personalità del Counselor. Questa tendenza non può essere eliminata del tutto ma può essere tenuta sotto controllo anche attraverso un percorso di crescita e di autoanalisi svolta dal Counselor stesso.

Liberarsi o quantomeno tenere sotto controllo i propri pregiudizi permette al Counselor di esprimere al cliente un atteggiamento comprensivo e non giudicante che a sua volta promuove lo sviluppo interiore del cliente favorendo il raggiungimento di una crescente fiducia nella relazione d’aiuto e nel Counselor stesso.

Il Counselor , inoltre, deve essere una persona empatica, cioè deve sperimentare, sentire il mondo del cliente come se fosse il proprio, senza mai perdere di vista la qualità del "come se". Comporta l'essere sensibile, da parte del Counselor, al cambiamento dell'esperienza soggettiva del cliente. E' questa qualità che permette di sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d'onda della persona e che le permette l'inizio della relazione d'aiuto .

L’empatia è una capacità innata ma in gran parte può essere acquisita e il suo sviluppo è la conseguenza di una chiarificazione personale del Counselor e dell’interesse e del piacere che egli trae dal contatto con gli altri. Il Counselor è pertanto tenuto a sviluppare la sua capacità di empatia. Ciò comporta imparare a rilassarsi mentalmente, spiritualmente, e anche fisicamente, imparare ad abbandonare il proprio sé all’altro e, in questo processo, essere disposti a venire trasformati. Si tratta di morire a se stessi per vivere con gli altri. È la grande rinuncia al proprio sé, la perdita temporanea della propria personalità, per ritrovarla infinitamente più ricca nell’altro. “Ciò che tu semini non riprende vita se prima non muore…”. (Rollo May).

L'ideogramma giapponese "in ascolto" ben sintetizza, e allo stesso tempo integra, le qualità del buon counselor e di qualunque altro professionista della Relazione d'aiuto.

 

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Difatti, l'Ascoltare (con la A maiuscola!) non è cosa da tutti. Come vedremo, contempla differenti dimensioni e si presenta come un connubio di più qualità. Il cosidetto "Ascolto attivo" è sintesi dell'essere "Centrati sul cliente" nella sua totalità, ascoltare ed essere ricettivi con tutti i nostri sensi.

Ma vediamo le parti che costituiscono l'ideogramma:

- Orecchio. Chi ascolta deve avere un "buon orecchio". Quando si ha di fronte una persona che parla è fondamentale prestare attenzione; sia al 'Cosa', ovvero al contenuto, sia al 'Come', dunque alla forma. Comprendere la domanda che ha portato il cliente a rivolgersi al professionista è indispensabile per far partire una relazione d'aiuto. Il "buon orecchio" permette al Counselor di isolare e riconoscere quegli aspetti verbali e non verbali che maggiormente possono essere utili al cliente, rimandandoglieli per un lavoro di consapevolezza ed esplorazione. L'arte del "porgere orecchio" rimanda alla capacità di ascoltare il problema del cliente e comprenderlo intellettualmente, assumendo il suo punto di vista (empatia cognitiva). Permette di afferrare ciò che quest'ultimo sta tentando di comunicare e ciò che in quel momento sta sentendo, ovvero il suo quadro concettuale di riferimento.

 

- Alterità/TU. L'uomo è in relazione. Non si configura come un Io, ma come un Io-Tu di buberiana memoria, un'isola che getta continui ponti sull'Altro da sé. Il principio della dialogicità e dell'incontro è indispensabile in una Relazione d'aiuto che voglia essere tale. E' comunicazione con l'altro, apertura, avvicinamento, costruzione di ponti di comunicazione che portano al dialogo. Dialogo che contempla la dimensione del Noi, che rimanda al costrutto dell'empatia, ovvero alla capacità, non solo di riconoscere l'altro ma, di entrarci in contatto, "sentirlo dentro", partecipare alla sua esperienza soggettiva. Come diceva Ardigò: "istituire comunicazioni inter-soggettive sino a mettersi nei panni dell'altro". Alterità significa quindi attraversare e lasciare la propria cornice di riferimento per entrare in quella del cliente, aprirsi a ciò che quest'ultimo sperimenta nel qui ed ora. Cliente con dignità e valore, con energie per far "tornare acqua alla sua fonte". Il costrutto della Relazione costituisce lo sfondo su cui ogni Relazione d'aiuto acquista valore e significato.

 

- Cuore.

"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".

"L'essenziale è invisibile agli occhi", ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.

"E' il tempo che tu hai perduto per la tua rosa, che ha fatto la tua rosa così importante".

"E' il tempo che ho perduto per la mia rosa...", sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

"Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa...".

"Io sono responsabile della mia rosa..." ripeté il piccolo principe per ricordarselo. [A.De Saint Exupery, p.98].

 

L’ascolto attivo che il Counselor esprime al cliente è un ascolto comprensivo. Saper ascoltare attivamente ha a che fare con il cuore, con l'atteggiamento caldo e accogliente del counselor, del suo calarsi affettivamente ed emotivamente nel mondo interiore del cliente (empatia affettiva), sintonizzandosi sulle sfumature delle emozioni e dei sentimenti. Un sano atteggiamento affettivo nei confronti del cliente lo aiuta a crescere, a fidarsi all'interno della relazione, a creare quel ponte sicuro che gli permette di avventurarsi nel suo mondo in compagnia del Counselor.

 

- Unità/Unione. Si riferisce alla completezza, all'integrazione (di gestaltica memoria) delle diverse parti e dei differenti aspetti che costituiscono la persona. E' un far scoprire e far sperimentare al cliente la sua forma, la sua interezza, la sua unione di cuor e mente, di sentimento e intelletto, in un approccio olistico in grado di abbracciare la sua interezza. La Persona, infatti, è prima di tutto, un intero. Presupposto, questo, che costituisce una delle pietre angolari dell'approccio gestaltico che, all'interno della relazione d'aiuto, prende forma nell'inseparabile unità dell'esperienza umana nel suo costituirsi momento dopo momento. L'invito al cliente è di essere se stesso il più pienamente e completamente possibile.

 

- Occhio. "Vedere" e non guardare, costruire un contatto visivo con l'Altro, dimostrando attenzione e presenza. Uno sguardo attento, interessato e non fugace. Si ascolta non soltanto con le orecchie e con l'udito ma anche tramite gli occhi. Da ciò discende il costrutto di Ascolto totale, attento non solo alle parole, ma anche a tutto ciò che viene comunicato attraverso il corpo. Porgere e posare lo sguardo sulla persona significa dirle: "Sono qui per ascoltarti, hai la mia piena attenzione. Saper ascoltare implica un "Saper osservare", condurre un'osservazione competente.

 

Occorre precisare che un Counselor, non è un “salvatore”, ha egli stesso pulsioni e sentimenti che deve essere in grado però di saper governare, attraverso il raggiungimento di una maggior auto-consapevolezza di sé e del suo lavoro, accettando anche i propri errori, e i propri limiti, non evitando di esporsi al confronto e alle critiche costruttive. Il Counselor deve sviluppare quello che Adler chiama “il coraggio dell’imperfezione” ovvero la capacità di sbagliare. Coraggio dell’imperfezione significa portare i propri sforzi su un campo di battaglia importante, là dove si compiono cose significative e dove il fallimento o il successo diventano questioni relativamente secondarie. Infatti, il cosiddetto “complesso del Messia” risulta essere l’espressione di un’eccessiva ambizione da parte del Counselor che ritiene il proprio lavoro indispensabile all’umanità.

In genere un buon Counselor non è colui che risolve i problemi degli altri, ma un professionista esperto nella relazione d’aiuto. Può limitarsi ad aiutare il suo cliente ad imparare da solo a gestire e risolvere i suoi problemi, e non risolverli al suo posto. Ma la differenza tra salvatore e agevolatore è anche un’altra e serve a comprendere quali sono i limiti umani e professionali di questo lavoro.

Il professionista della relazione d’aiuto non è chiamato a trovare la soluzione al problema altrui, ma è chiamato a sostenere l’altro nel recuperare ed esercitare al meglio le proprie capacità creative personali per comprendere e valutare in maniera appropriata azioni presenti e passate e assumere decisioni opportune riguardo al suo futuro.

Il tentativo è quello di ricondurre l’individuo in bisogno a se stesso, potenziare la sua motivazione a mettersi in auto-ascolto per attivare quelle energie interiori che lo conducano in tutta autonomia a porsi di fronte alla vita con un atteggiamento nuovo e diverso rispetto al passato: attivo, propositivo, costruttivo.

In nessun caso il Counselor potrà mai fare a meno, di una supervisione competente a cui fare riferimento e di “un lavoro su se stesso” (un proprio percorso di auto-ascolto, di un Training di formazione adeguato cui il professionista è chiamato a sottoporsi per raggiungere una crescita personale matura e consapevole), per essere sempre nella maniera più opportuna di sostegno al proprio cliente. Essere aperti alla supervisione, e a un lavoro su se stessi continui, dunque, rappresentano più di un addestramento, o di una consultazione. Ricordano il processo stesso del Counseling, specialmente quando si vanno ad esplorare problemi personali del supervisionato emersi nella relazione d’aiuto.

Alle volte, soprattutto all’inizio della professione ci possono essere momenti critici che possono riguardare il contro-transfert del professionista, i suoi sentimenti, contraddizioni e ambivalenze, le sue difficoltà relazionali con il cliente. Attraverso la super-visione si possono approfondire questi temi consentendo al counselor un’auto-esplorazione  e un’ aggiornamento, caratteristiche fondamentali di una professione che per raggiungere ed aiutare l’altro, fare un lavoro di qualità e fa crescere l’altro come individuo ha bisogno di mettere sempre in gioco se stesso in un equilibrio non statico ma dinamico.


 

Carl Rogers e la corrente Umanistico-Esistenziale

 

Le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto piuttosto che da quelle scaturite dalla mente di altri.

Blaise Pascal

Carl Rogers (1902-1987), psicologo e psicoterapeuta americano, può essere sicuramente considerato il Padre del Counseling; nel 1987 gli fu assegnato il premio Nobel per la Pace non solo per la sua attività pacifista, ma anche per il suo pensiero e la sua pratica professionale d'educatore, psicologo e psicoterapeuta, che furono caratterizzate da un orientamento all'incontro armonioso tra le persone.

Nato in una famiglia che gli trasmise valori profondi sia nelle relazione con se stesso sia in quella con le altre persone, C.Rogers ebbe anche, durante la sua crescita, altri due nutrimenti interiori fondamentali: il rapporto con il sacro e quello con la natura. Forse per questa ragione il suo corso di studi accademico fu particolare: prima s'iscrisse ad agraria, successivamente ad una facoltà teologica. Dopo un soggiorno di sei mesi in Cina e in seguito alle riflessioni nate dal contatto con la cultura orientale, poté mettere a fuoco il suo bisogno di libertà di pensiero e il suo interesse per le scienze psicologiche; questo lo portò ad intraprendere un corso di studi di carattere psico-pedagico.

Dopo la laurea, per oltre un decennio lavorò come psicologo presso alcune istituzioni sociali per la rieducazione di bambini e ragazzi delinquenti e ritardati e per il sostegno alle loro famiglie. Il suo scopo principale era essere d'aiuto a queste persone; al tempo stesso sentiva che la prassi psicologica tradizionale non lo facilitava. Anche confrontandosi con vari insuccessi, in questo periodo C.Rogers iniziò a mettere a fuoco e a sviluppare quello che sarebbe stato il suo approccio professionale alla psicoterapia, che mise in atto fattivamente dal 1924.

Nel 1942 pubblica “Counseling and Psychotherapy” che getta le basi della sua “Terapia centrata sul cliente”,pubblicato nel 1951 diventando uno dei massimi esponenti della corrente Umanistica-Esistenziale che si porrà in Europa e nel mondo come la terza forza della psicologia in alternativa alla psico-analisi e al comportamentismo. Rogers, infatti, insieme ad altri esponenti tra cui Rollo May, Viktor Frankl, Abraham Maslow e in ambito italiano Roberto Assaggioli rifiuta sia il pessimismo insito nella visione psicoanalitica dell’uomo, sia la concezione dell’uomo come un robot tipica del comportamentismo.

C.Rogers ha sicuramente espresso nel proprio approccio ciò che egli era, una persona umana e sensibile, umile e capace, ben radicata sia nel proprio mondo percettivo sia in quello intellettivo. Sicuramente una figura interiormente libera eppure pienamente responsabile del proprio apporto educativo all'umanità. Un essere umano dal quale imparare come persona e al quale ispirarsi come professionisti delle "relazioni d'aiuto"

 

La rivoluzione Rogersiana, rispetto all'approccio della psicologia tradizionale, inizia dallo spostare l'attenzione del lavoro psicoterapeutico dalla risoluzione del problema al facilitare l'emersione delle risorse interiori dell'individuo. Pertanto il rapporto terapeutico sarà centrato e focalizzato sulla persona e sulla sua esistenza prima che sul suo problema, sulla qualità del rapporto umano. Secondo Rogers, infatti, spostando l'attenzione dagli aspetti intellettivi (la mente) a quelli emotivi (la percezione), e concentrandosi sul presente, “sul qui ed ora”, espresso dall’individuo si promuove la crescita interiore e una maggiore capacità di affrontare e gestire le problematiche da parte del cliente.

Scriveva Rollo May: “Se durante la seduta mi soffermo principalmente sul come e sul perché è sorto il problema, avrò capito tutto tranne la cosa più importante, la persona esistente. Avrò capito tutto salvo l’unica vera fonte di dati a mia disposizione, ossia questo essere umano che sperimenta, emerge, diviene, costruisce un mondo”.

Una delle caratteristiche della psicoterapia esistenziale è che le tecniche cambiano; questi cambiamenti però non avvengono a caso, ma dipendono di volta in volta dai bisogni della persona. L’incontro terapeutico diventa, pertanto, un’espressione dell’essere, cioè è un rapporto totale tra due persone, che comporta diversi livelli. Uno di questi è il livello delle persone reali: l’incontro mitiga la solitudine fisica che caratterizza tutti gli esseri umani; pertanto il professionista lascia in parte il suo ruolo d'esperto inteso come qualche cosa che determina "up & down", e si pone verso il cliente avendo cura della comunicazione e della relazione, utilizza accoglienza e rispetto anziché formalità e freddezza. Essendo tutti gli individui di pari dignità valore e responsabilità , Rogers elimina il concetto di "paziente", trasformandolo in “cliente”. Tale termine libera la persona dal senso di malattia, sottintende una reazione paritaria, in cui la persona offre all’operatore la possibilità di svolgere la sua attività, permettendogli di mettere a frutto le sue competenze professionali e nello stesso tempo, di acquisire nuovo materiale esperienziale e formativo. Non c'e' quindi la persona che in maniera del tutto passiva si affida ad un esperto ma ci sono due persone (Counselor e Cliente) che fanno insieme un percorso di crescita.

La terapia non direttiva o centrata sul cliente si basa sul presupposto che ogni individuo tende all’autorealizzazione, e struttura il proprio ricercando un accordo tra la valutazione-accettazione dei valori suggeriti dall'esterno, e quelli conformi alla richiesta di autorealizzazione. Rogers, infatti, considera la salute mentale come la progressione normale della vita e la malattia mentale (e altri problemi umani) come distorsioni della "tendenza attualizzante". Quest'ultima è una forza vitale che può essere definita come la tendenza fondamentale dell'organismo a realizzare le proprie potenzialità e di autocurarsi; essa opera sia sul piano ontogenetico che su quello filogenetico e necessita di un contesto di relazioni umane positive, favorevoli alla conservazione e rivalutazione dell'Io. Se la nozione dell'Io è realistica, ovvero se vi è corrispondenza tra le capacità che il soggetto crede di possedere e quelli che effettivamente possiede, egli sarà congruente e potrà svilupparsi in modo unitario, autonomo e soddisfacente. In genere il cliente si trova in una situazione di incongruenza tra l'esperienza reale dell'organismo e l'immagine di sé che egli ha quando si rappresenta l'esperienza. Lo scompenso nasce quando l’individuo, durante l’età infantile, vive situazioni insolite e anormali che comportano gravi fratture che non favoriscono il normale sviluppo. Per Rogers è nell’infanzia che si forma il concetto di sé. Il bambino piccolo, quando nasce, ha in sé la capacità di scegliere o rifiutare in modo chiaro le esperienze in rapporto al modo in cui esse possono agevolare o ostacolare le esigenze dell’organismo, in base a quello che Rogers chiama una valutazione organismica. Se i genitori assicurano amore, stima, sicurezza, considerazione in modo incondizionato, accettando anche aspetti negativi del bambino, il suo concetto di sé si plasmerà sull’esperienza in modo libero e autonomo, le esperienze saranno vissute conformi rispetto al concetto di sé e ai bisogni organismici. La tendenza attualizzante guiderà il bambino e poi l’adulto fino alla piena autorealizzazione. Se la considerazione positiva viene data in modo condizionato, il bambino introietterà valori, mete, modi di essere incongruenti con la propria esperienza organismica. A causa di questi condizionamenti, il concetto di sé viene sviluppato su basi esterne e rigide e le esperienze verranno selezionate o distorte affinché si possa mantenere la coerenza del sé che si è formato. Le esperienze personali non fluiranno più liberamente in accordo con l’organismo e con la tendenza attualizzante. Quando la frattura tra il concetto di sé e l’esperienza è troppo grande e le difese non svolgono più la loro funzione di protezione, nasce uno stato di incoerenza nel sé e comincia il disagio. Sarà compito del Counselor attraverso l’accettazione positiva incondizionata che il cliente non ha ricevuto, innescare un processo di autoconsapevolezza e di integrazione tra il sé e l’esperienza, che porti la persona a divenire consapevole della propria condizione, dei propri stati d’animo e dei propri bisogni; dall'altra favorire la riattivazione della "tendenza attualizzante.

 

La terapia centrata sul cliente si basa su alcuni principi fondamentali:

·        Le persone possono essere capite solamente partendo dalle loro percezioni e dai loro sentimenti, ossia dal loro mondo fenomenologico. Per capire un individuo dobbiamo concentrare la nostra attenzione non sugli eventi che egli esperisce ma sul modo in cui li esperisce, perché il mondo fenomenologico di ogni persona è la determinante principale del suo comportamento e ciò che la rende unica.

·        Le persone sono consapevoli del loro comportamento. In questo senso il sistema di Rogers è simile a quello della psicanalisi e dell'analisi dell'Io, poiché pone la consapevolezza delle motivazioni tra i suoi obiettivi principali.

·        Le persone sono per loro natura buone e capaci di comportarsi in maniera efficace; esse diventano inefficaci e disturbate solamente quando interviene un apprendimento errato.

·        Le persone sono capaci di comportamenti finalizzati e sanno darsi degli obiettivi. Esse non rispondono passivamente all'influenza dell'ambiente o alle proprie pulsioni interiori, e sono in grado di compiere scelte autonome.

Il Counselor non dovrebbe cercare di manipolare gli eventi per conto del cliente; piuttosto dovrebbe creare le condizioni in grado di facilitare un processo decisionale autonomo da parte sua. Quando le persone non si preoccupano eccessivamente delle valutazioni, delle esigenze e delle preferenze altrui, la loro esistenza risulta guidata da una tendenza innata all'autorealizzazione.

Sulla base del presupposto che una persona matura e bene adattata fonda i suoi giudizi su elementi intrinseci di soddisfacimento e autorealizzazione, Rogers evitava di imporre obiettivi al cliente durante la terapia. Tale approccio è definito “non direttivo”.Secondo Rogers è il cliente che deve "prendere il comando" e dirigere l'andamento della conversazione e della seduta. Il compito del Counselor è quello di creare le condizioni per cui durante la seduta il cliente possa entrare in contatto con la sua natura più profonda e valutare da solo quale stile di vita è per lui intrinsecamente gratificante. Poiché aveva un visione molto positiva delle persone, Carl Rogers riteneva che attraverso l'esercizio di decisioni autonome esse sarebbero riuscite non solo ad essere soddisfatte di se stesse, ma anche a diventare delle persone capaci di instaurare relazioni socialmente adeguate.

Secondo Rogers e gli esponenti del filone umanistico ed esistenziale, la persona deve assumersi la responsabilità della propria vita . È spesso difficile per un Counselor astenersi dal dare consigli, dal farsi carico dell'esistenza del cliente, specialmente quando tale cliente appare incapace di prendere decisioni autonome. Ma i rogersiani si attengono strettamente alla regola secondo cui, un'atmosfera terapeutica calda, sollecita l'innata capacità di crescita e di autorealizzazione dell'individuo . Essi ritengono che se lo specialista interviene , il processo di crescita e di autorealizzazione ne risulterà solo ostacolato, e che qualunque sollievo a breve termine possa interferirà con la crescita a lungo termine del cliente.

In definitiva il colloquio clinico è un incontro in cui al centro c’è la persona con ciò che mette in gioco di sé, con ciò che vuole migliorare della sua vita, con i suoi bisogni espliciti e quelli non detti.

La persona che arriva in consulenza, ha già riconosciuto di avere un problema da risolvere e di avere la necessità di essere aiutata per trovare la propria soluzione personale alla questione. Ciò significa che di fronte allo stesso problema ci possono essere soluzioni diverse, dipendenti dalla personalità, dalle circostanze e dalle risorse interne del cliente.


 

Tecniche di counseling

                                                                                   

Ogni Counselor ha un proprio stile, e nel rispetto del codice deontologico può utilizzare diverse tecniche o approcci in base sia alla sua formazione teorica sia alla sua esperienza di vita.

Ogni cliente è diverso, perché ogni individuo è unico ed irripetibile pertanto il bravo Counselor è capace di trovare ascolto, comunicazione e stile diverso per ogni cliente.

Il Counselor durante la sua formazione triennale acquisirà le competenze per potere approcciare ad un quesito espresso dal cliente con diverse tecniche dal momento che non può affrontare le diverse situazioni con uno schema fisso e prestabilito, ma deve implementare strategie diverse in base alla reale e concreta situazione che ha di fronte; il processo d’intervento si deve plasmare alle caratteristiche dell’essere umano sofferente a cui occorre proporre una direzione per affrontare il suo malessere soggettivo. Pertanto il Counselor potrà fare ricorso nel percorso all’ausilio di tecniche apprese dalla corrente umanistica-esistenziale, dall’analisi transazionale di Berne, dalla logoterapia di Frankl, dalla Gestalt di Perls, dal cognitivismo di Ellis e Beck.

Alcune di queste correnti verranno approfondite successivamente, particolarmente quelle che hanno un’implicazione nel counseling medico dove assume grande importanza il senso e il significato dato a tematiche dell’esistenza quali: senso e significato della sofferenza , della morte e della vita.


 

Etica e deontologia professionale per un counselor.

Qualsiasi professione che abbia a che fare con i rapporti tra le persone necessita di un codice di condotta. Il Counseling, al pari della psicoterapia, si configura come una relazione d’aiuto complessa e delicata, che impone la necessità di proteggere la relazione stessa con norme precise valide sia per il professionista che per il suo cliente. La deontologia risulta dunque essere l’insieme dei diritti/ doveri che impone ai professionisti l’esercizio della loro professione.

Articolo 1 Premessa

1. Il Codice Deontologico rappresenta, per ogni socio, un insieme di indicatori di autoregolamentazione, di identificazione e di appartenenza.

2. II Codice Deontologico ha lo scopo di precisare l'etica professionale e le norme a cui il Counselor  deve attenersi nell'esercizio della propria professione.

3. Costituisce illecito deontologico qualunque comportamento contrario  alla dignità della professione, qualunque  violazione  al codice penale.

4. Le norme deontologiche indicate nel presente codice sono di natura vincolante: la loro inosservanza sarà verificata e valutata dal Comitato Disciplinare Counseling.

Articolo 2 Principi generali

1. Il Counselor  fonda la propria professione sui principi etici dell’accoglienza e del rispetto, dell’autenticità e della congruenza, della gentilezza e dell’ascolto, della responsabilità e della competenza.

2. L’attitudine del Counselor è basata sul rispetto per i diritti umani e sull’accettazione delle differenze personali e culturali. Egli è professionalmente libero di non collaborare verso obiettivi che contrastino con le proprie convinzioni etiche.

3. Il  Counselor è tenuto ad operare nel proprio ambito di competenza professionale, a monitorare la propria formazione attraverso un aggiornamento permanente ed il ricorso  alla supervisione.

4. Il Counselor è  responsabile dei propri atti professionali. E’ tenuto ad uniformare la propria condotta ai principi del decoro e della dignità professionale.

5. Il Counselor considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere dell’individuo, del gruppo e della comunità.

6. Il Counselor  tratta con riservatezza tutte le informazioni dei clienti. E’ strettamente tenuto al segreto professionale, salvo per i casi previsti dalla legge in vigore.  

7. Il Counselor agisce in conformità e nel pieno rispetto delle leggi vigenti.

Articolo 3 Rapporti con il cliente

1. Il Counselor  fornisce al cliente informazioni adeguate sui confini deontologici della sua professione,  le finalità, gli assunti teorici e metodologici.

2. Il Counselor concorda con il cliente gli obiettivi, i tempi e il compenso economico; ne favorisce l’autonomia, rispettando la sua capacità di prendere decisioni e di operare cambiamenti.

3. In ogni contesto professionale, il counselor deve adoperarsi affinché sia  rispettata la libertà di scelta, da parte del cliente, del professionista a cui rivolgersi.

4. Il Counselor prende tutti i provvedimenti necessari ad assicurare che il cliente non subisca danni fisici o psicologici durante la consulenza.

5. Il Counselor evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l’attività professionale o che possano recare danno all’immagine sociale della professione.

6. Costituisce illecito deontologico sfruttare il cliente da un punto di vista finanziario,sessuale, emotivo od in qualunque altro modo.

7. Il Counselor è  tenuto a garantire al cliente la piena libertà di concedere, di rifiutare o di ritirare il consenso alla diffusione  in forma anonima del percorso realizzato.

8. Il Counselor deve mantenere la riservatezza sulle prestazioni professionali oltre che per i contenuti anche relativamente alla prestazione stessa.

9. Il Counselor è sempre tenuto al segreto professionale anche in caso di morte o di minori a meno che quest’ultimo viva una situazione di pericolo o di sfruttamento.

Articolo 4 Rapporto con colleghi

1. I rapporti tra i Counselor devono ispirarsi ai principi del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza, della corresponsabilità e dell’armonia.

2. Il Counselor  promuove e favorisce rapporti di scambio e collaborazione. Si impegna a comunicare alla comunità professionale i progressi delle sue conoscenze, dei suoi metodi  e delle sue tecniche.  

3. Può avvalersi dei contributi  di altri specialisti, con i quali realizza opportunità di  integrazione e valorizzazione delle reciproche competenze.

4. Il Counselor si astiene dal dare pubblicamente su colleghi giudizi negativi relativi alla loro formazione, alla loro competenza ed ai risultati conseguiti a seguito di interventi professionali, o comunque giudizi lesivi del loro decoro e della loro reputazione professionale.

5.Costituisce aggravante il fatto che tali giudizi negativi siano volti a sottrarre clientela ai colleghi.

6.Qualora ravvisi casi di scorretta condotta professionale che possano tradursi in danno per gli utenti o per il decoro della professione, il Counselor è tenuto a darne tempestiva comunicazione al responsabile deontologico

7. E’ eticamente e deontologicamente corretto informare il Responsabile Etico Disciplinare Counseling di condotte  lesive della dignità di appartenenza alla professione Counselor.

Articolo 5 La professione

1. Il Counselor conosce le caratteristiche fondanti della propria professione e apporta il proprio contributo professionale nella relazione con altre professioni e professionisti, facendo ad esse riferimento.

2. Il Counselor è a conoscenza del fatto che esistono norme giuridiche che attribuiscono ad altre professioni, attività riservate. Il Counselor è tenuto a conoscere il contenuto delle principali norme, nel caso in cui collabori con tali professionisti. Qualora si trovasse in condizioni di incertezza è tenuto ad informarsi e, preventivamente, ad astenersi per non contravvenire a tali norme.

3. Il Counselor contrasta l’esercizio abusivo delle professioni regolamentate ed  utilizza il proprio titolo professionale per attività ad esso pertinenti, e non avalla con esso attività ingannevoli od abusive.

Articolo 6 Sanzioni

1. Il responsabile deontologico valuta le segnalazioni pervenute e dispone l’avvio di un procedimento disciplinare o l’archiviazione  a seguito di una istruttoria preliminare. La segreteria operativa, dopo aver ascoltato il collega ed eventuali testimoni, dispone la sanzione disciplinare nei termini dell’ avvertimento, di una nota di biasimo, della sospensione e della radiazione.


 

Il setting nel counseling

 

Il setting è l'insieme delle regole, la dimensione spazio-temporale che delinea luoghi, tempi, modalità della relazione.

Il setting è, infatti, costituito dal set (ovvero dall’ambiente fisico e funzionale all’interno del quale ha luogo la relazione), dalle regole organizzative del “contratto” (orario, durata e pagamento delle sedute), e dalle regole relazionali e comunicative che mediano il rapporto tra il counselor ed il cliente.

Il setting esterno, inteso come “ambiente” in cui si svolgono gli incontri, deve essere un setting protettivo. In genere il counselor incontra il cliente, dopo un breve colloquio telefonico, presso uno studio professionale ,quindi un luogo riservato e chiuso, sufficientemente luminoso; attenzione va posta alla disposizione della stanza, dei mobili,alla essenzialità degli oggetti presenti affinchè non siano dispersivi, ma facilitanti, alla comodità delle sedie, che non devono essere scomode, nè eccessivamente rilassanti, perché il loro scopo è di facilitare un lavoro, non un riposo.

Nessuno deve poter entrare e disturbare, non c’è nulla che può interrompere quello che sta accadendo: ogni incontro è un incontro speciale, sacro.

Se nella psicoterapia il setting può prevedere l’uso del lettino ed il terapeuta, secondo l’impostazione freudiana è di spalle al paziente, nel Counseling il Counselor e cliente devono potersi guardare negli occhi. Poiché centrale nel Counseling è la relazione empatica, l’ascolto, il riconoscimento ed il set deve agevolare il contatto emotivo. È quindi importante che Counselor e cliente siano seduti uno di fronte all’altro senza oggetti fisici in mezzo che ostacolino il contatto. Sarebbe per questo motivo buona pratica evitare l’utilizzo di un tavolo o una scrivania che rendono difficile la vicinanza e la vera intimità.

Per quanto riguarda il setting interno od emotivo, il setting di psicoterapia connette l’interpersonale con l’intrapsichico e collega il qui ed ora con il là ed allora. Ci si occupa prevalentemente del cambiamento dell’individuo a livello psicologico inconscio, avendo come focus principale una ristrutturazione profonda della personalità. Il setting di Counseling si occupa dell’interpersonale e del qui ed ora, avendo come focus principale il cambiamento individuale a livello sociale. Data la diversità del setting emotivo, esiste anche una diversità della durata della relazione: il tempo necessario è evidentemente più lungo nel caso di una terapia.

Il setting è formato anche dal contratto che riguarda i tempi e le regole di intervento. Il contratto viene stipulato, in genere, al termine del primo incontro, tra il counselor e il cliente che si accordano sulle finalità e sui metodi per il raggiungimento degli obiettivi .

Il contratto, traccia i confini dell’intervento terapeutico. Gli elementi del contratto sono:

1.         Accoglienza, presentazione iniziale, consenso al trattamento dei dati personali e registrazione dei dati anagrafici di base

2.         Definizione del rapporto professionale (durata, frequenza, pagamento, spostamento degli incontri, ritardi, prevedibile durata del percorso). Consenso informato. La durata di un colloquio individuale di counseling, generalmente è 45 min-1 ora. Appartengono inoltre alle modalità del setting tutti gli aspetti economici, di impegno reciproco nella puntualità, la riservatezza del segreto professionale a protezione della relazione e del processo di cura dell’altro.

3.         Proposta di un piano di intervento: definizione degli obiettivi e delle strategie. Nel primo colloquio si cerca di delimitare il problema, facendo emergere la richiesta esplicita e la domanda implicita del cliente e verificando la sua disponibilità a sperimentare nuove strategie comportamentali. Se è possibile si preferisce definire obiettivi a breve , medio e lungo termine, verso cui muoversi insieme al cliente, definendo i tempi di una prima serie di colloqui che attivano il cambiamento. Quando necessario, e richiesto dal cliente, a questa prima serie di colloqui, ne segue una seconda, più breve di consolidamento dei traguardi raggiunti e approfondimento di problematiche lasciate in sospeso.

La definizione delle tecniche comporta la spiegazione del percorso al cliente che si intende intraprendere per raggiungere gli obiettivi. Diverse sono, infatti, le tecniche di cui può avvalersi il Counselor in relazione ad ogni singolo problema esposto dal cliente. Pertanto l’operatore dovrà avere una  approfondita conoscenza delle tecniche disponibili, e una buona dose di intuitività e competenza per scegliere di volta in volta l’approccio più giusto rispettando la sensibilità del cliente.

La relazione professionale termina con il raggiungimento degli obiettivi e la conclusione del contratto. Ma alcune responsabilità professionali continuano anche dopo il termine del contratto. Esse sono:

·        Mantenere un alto grado di riservatezza.

·        Evitare ogni forma di uso della relazione per scopi diversi da quelli originari.

·        Essere disponibili per eventuali bisogni successivi.


 

La figura del medico nella storia ed il rapporto medico-paziente

Giuramento di Ippocrate

Testo “classico”

Giuro per Apollo medico e per Asclepio e per Igea e per Panacea e per tutti gli Dei e le Dee, chiamandoli a testimoni che adempirò secondo le mie forze e il mio giudizio questo giuramento e questo patto scritto. Terrò chi mi ha insegnato quest’arte in conto di genitore e dividerò con Lui i miei beni, e se avrà bisogno lo metterò a parte dei miei averi in cambio del debito contratto con Lui, e considerò i suoi figli come fratelli, e insegnerò loro quest'arte se vorranno apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti. Metterò a parte dei precetti e degli insegnamenti orali e di tutto ciò che ho appreso i miei figli del mio maestro e i discepoli che avranno sottoscritto il patto e prestato il giuramento medico e nessun altro. Sceglierò il regime per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale, e non prenderò mai un’iniziativa del genere; e neppure fornirò mai a una donna un mezzo per procurare l'aborto. Conserverò pia e pura la mia vita e la mia arte. Non opererò neppure chi soffre di mal della pietra, ma cederò il posto a chi è esperto di questa pratica. In tutte le case che visiterò entrerò per il bene dei malati, astenendomi ad ogni offesa e da ogni danno volontario, e soprattutto da atti sessuali sul corpo delle donne e degli uomini, sia liberi che schiavi. Tutto ciò ch'io vedrò e ascolterò nell'esercizio della mia professione, o anche al di fuori della professione nei miei contatti con gli uomini, e che non deve essere riferito ad altri, lo tacerò considerando la cosa segreta. Se adempirò a questo giuramento e non lo tradirò, possa io godere dei frutti della vita e dell’arte, stimato in perpetuo da tutti gli uomini; se lo trasgredirò e spergiurerò, possa toccarmi tutto il contrario.

Testo “moderno”

Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro: di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento; di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente; di attenermi alla mia attività ai principi etici della solidarietà umana, contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze; di prestare la mia opera con diligenza, perizia, e prudenza secondo scienza e coscienza ed osservando le norme deontologiche che regolano l'esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione; di affidare la mia reputazione esclusivamente alla mia capacità professionale ed alle mie doti morali; di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il prestigio e la dignità della professione. Di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni; di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità condizione sociale e ideologia politica; di prestare assistenza d’urgenza a qualsiasi infermo che ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità a disposizione dell'Autorità competente; di rispettare e facilitare in ogni caso il diritto del malato alla libera scelta del suo medico, tenuto conto che il rapporto tra medico e paziente è fondato sulla fiducia e in ogni caso sul reciproco rispetto; di osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato; di astenermi dall’"accanimento" diagnostico e terapeutico.


 

     
 

I

 

ppocrate, padre della medicina occidentale, considerava il rapporto tra medico e paziente improntato sulla philia (amicizia) e sull’agape (affetto). Dallo atro agathos (vale a dire dal buon medico) ci si aspettava la tecnophilia, amore per l’arte medica e la philantropia, amore per l’uomo.

Questa impostazione armonizzava un rapporto asimmetrico. Al potere e al sapere del terapeuta corrispondeva infatti la dipendenza passiva del malato.

Il giuramento di Ippocrate e l’alleanza tra individui con ruoli diversi non costituirono l’unica forma di rapporto medico paziente nel mondo greco e romano. Jori ha esaminato (“Medicina e medici dell’antica Grecia”, ed. Il Mulino, 1996 ) il testo Ippocratico “Perì tèchnes” (Sull’ arte medica), uno dei settantadue volumi che costituiscono il “corpus Hipocratycum”. Dal suo saggio emerge un dato significativo: molti esponenti dell’arte sanitaria ritenevano il sapere scientifico estraneo al contributo del paziente ed erano refrattari a stabilire con lui un rapporto umano fondato sull’empatia sull’ascolto e sul dialogo. La storia personale del malato non li influenzava, non li coinvolgeva. Per loro il rapporto si basava sulla sordità, sul silenzio, sulla gestione esclusiva da parte del medico di un sapere concluso, formalizzato, “elitario”.

Per Ippocrate il dovere del medico è fare il bene del paziente: compito del malato è accettarne l’operato. Un rapporto paternalistico, nel cui ambito la responsabilità morale del professionista, depositario delle conoscenze tecniche, risiede nella certezza di operare per il bene degli altri. Il medico greco era considerato, grazie alle conoscenze tecniche un “demiurgo”, un mediatore tra uomo e divinità. Concezione “alta” che comportava privilegi, autorità morale, impunità giuridica. Ci troviamo di fronte ad un modello di medicina che riflette in parte la vita e la società della polis greca fondata sull’ordine, sulla tradizione e sull’obbedienza a leggi considerate universali.

La contrapposizione tra stili professionali così lontani avrebbe incontrato una proposta di conciliazione nelle tesi di Galeno, tardo erede di Ippocrate, che secoli dopo la morte del maestro di Kos tracciò il profilo del medicus gratiosus, bene accetto al malato, compassionevole, amabile, attento alle sue esigenze fisiche e psicologiche. Galeno delineò i modi e le forme che avrebbero fatto del medico una figura “autorevole”. Doveva essere elegante ma sobrio, capace di modulare il suo comportamento sulle esigenze e sulle preferenze dichiarate o intuite del suo interlocutore fragile, bisognoso di cure e di attenzione.

Ma nonostante questi nuovi concetti, per secoli le regole del rapporto guaritore-malato si sono basate sul giuramento di Ippocrate, cui dobbiamo anche il concetto di segreto professionale. L'etica ippocratica riflette l'ideale del medico filantropo al servizio di tutti, al di sopra delle divisioni religiose, politiche, culturali, sociali ed economiche.

Fino al medioevo il medico è stato considerato un “sacerdote della salute”. L’unica persona in grado di preservare il dono supremo di Dio: la vita.

Se analizziamo questa relazione attraverso l’analisi transazionale di Eric Berne, il rapporto medico-paziente può essere considerato una diade verticale in cui il medico si trova sempre in uno stato dell’Io[1] genitore, ed il paziente è sempre in uno stato dell’Io bambino.

Medico (genitore)

             

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Paziente (bambino)

 

Successivamente il mondo latino, arabo, il medioevo, definito a torto dagli ignoranti periodo buio, limitato, e regressivo determinarono una graduale evoluzione delle conoscenze scientifiche culminate nell’apogeo dell’illuminismo e nei successivi sviluppi che hanno delineato lo scenario in cui viviamo. Le rivoluzioni politico-religiose del sedicesimo secolo e le pubblicazioni innovative di pensatori come l’inglese Locke e il tedesco Kant avrebbero convertito molto lentamente la sudditanza del paziente in rispetto reciproco: per entrambi i filosofi, ciascuno di noi è in grado di servirsi della propria ragione, e’ una persona autonoma, indipendente. Pertanto si delinea il principio di autonomia del paziente: oltre che una realtà fisica l’essere umano possiede anche una dimensione morale che gli permette di avere completa libertà di agire e di disporre della sua persona secondo la sua volontà. Da questo momento il ruolo del paziente non è più passivo e dipendente al volere del medico ma acquisisce un ruolo attivo nella scelta terapeutica.

Pertanto sarebbe auspicabile una comunicazione medico paziente che alla luce dell’analisi transazionale, non sia più una diade verticale tra uno stato dell’IO adulto .e uno stato dell’IO bambino ma una diade orizzontale tra due stati dell’IO adulto.

Uno dei primi documenti che associa il principio di autonomia al rapporto medico-paziente e delinea anche il concetto di consenso informato è il Codice di Norimberga nel 1946 sancito poi dall’art. 32 e dall’art. 34[2] della Costituzione.

Questi principi e le norme sul consenso informato, diffusi in Italia, intorno agli anni 70, se da un lato hanno permesso un cambiamento nel rapporto paternalistico tra medico e paziente, e hanno dato un ruolo attivo al paziente, dall’altro hanno reso ancora più difficile il rapporto umano tra queste due figure. Infatti il medico, per difendersi dagli attacchi legali dei pazienti, ha creato vere e proprie barriere nella comunicazione attenendosi solo alle regole. Negli USA, in caso di cancro, immediatamente il medico deve comunicarlo al paziente altrimenti può incorrere in una causa penale, non è tenuto a comunicarlo ai familiari in modo che fungano da ponte tra il paziente e il medico. Ciò ha determinato, ancor di più una perdita di umanità da parte del medico, attento in ogni momento a non avere problemi. Tuttavia, solo il superamento di questa visione difensiva della medicina, potrà permettere di raggiungere un’alleanza terapeutica, attraverso un processo di comunicazione solidale tra medico e paziente.

Il distacco tra il medico ed il paziente si è ulteriormente accentuato con il progredire della tecnologia e della conoscenza. Negli atenei si insegna troppo la tecnica e poco l’umanità. Il medico deve imparare a pensare come un malato. Bisogna avere l’umiltà di imparare da chi soffre. In molte parti del mondo la conquista di una relazione paritetica tra medico e malato e’ ancora utopia, ma nei singoli casi in cui si attua una comunicazione efficace basata sull’umanità e l’empatia, essa stessa è la chiave che avvia insieme alla conoscenza dell’arte medica, il processo di guarigione dell’individuo.

È importante che al centro del sistema ritorni il paziente nella sua totalità in quanto persona e non in quanto esclusivamente persona malata.

Nel tunnel della sofferenza, accidente irriducibile del vivere, sgorga spontanea nel malato la domanda: perché il medico, oltre che cercare di risolvere tecnicamente i miei mali, e gliene sono grato, non si prende anche “cura di me” e della mia sofferenza psichica e morale?

L’empatia, l’umanità, la congruenza, e l’accettazione positiva incondizionata dell’altro, la ricerca del senso e del significato della sofferenza sono la base del counseling, per cui un medico che è anche un counselor  potrà riuscire più facilmente ad avere un rapporto quasi alla pari con un paziente e sarà agevolato nella comunicazione e nello stabilire una buona alleanza terapeutica con quest’ultimo.


 

 

Gli Stati dell’IO e l’Analisi Transazionale di Eric Berne

 

L’Analisi Transazionale (AT) è un indirizzo psicologico nato negli anni ’50 ad opera dello psicoterapeuta Eric Berne. Ma soprattutto si tratta di una concezione dell'essere umano che nasce da una filosofia positiva in cui ogni persona è fondamentalmente O.K.

Il nome deriva dal termine "transazione" che significa "scambio"che si verifica tra due individui che comunicano. Berne ha posto molta attenzione alla natura degli scambi di comunicazione tra le persone (dunque alle "transazioni") quali indicatori di elementi sottostanti e più profondi della personalità. Ogni transazione si compone di due parti: lo stimolo e la risposta. Le singole transazioni normalmente fanno parte di una serie. Alcune di queste serie o sequenze di transazioni possono essere dirette, produttive, sane; oppure possono essere ambigue, distruttive, malsane

Infatti nell'affrontare determinate situazioni, le persone, tendono a ripetere un "copione", ovvero le esperienze vissute nell'infanzia, e utilizzano strategie operative, che possono rivelarsi auto-lesioniste o dolorose perché tendono a seguire le strade già tracciate per sentirsi più sicuri, limitando la possibilità di un pensiero divergente che riesca a trovare soluzioni a problemi vecchi e nuovi.

L'Analisi Transazionale e' quindi una corrente che studia l'individuo all'interno dell'ambiente in cui vive, attraverso i comportamenti che manifesta. Lo scopo di questa “teoria della personalità” e' quello di indagare i comportamenti dei soggetti in relazione, comprendere le motivazioni per cui a volte si sente disagio ed individuare quali siano le modalità più opportune per evitare il disagio e vivere, il più possibile, in armonia.

Per raggiungere questi obiettivi, l'Analisi Transazionale, scompone la struttura della personalità in tre elementi distinti : gli .stati dell'Io. L'Io è il nucleo della nostra identità psicologica e in quanto tale ci permette di auto-riconoscerci e farci riconoscere

Gli stati dell’IO sono modi di essere nel mondo. Più concretamente sono insiemi uniformi e coerenti di pensieri, emozioni e comportamenti organizzati in modo coerente tra loro, che rispecchiano le esperienze del passato e del presente dell’individuo.

Uno stato dell’Io viene definito da Berne come “un sistema di sentimenti accompagnati da un relativo insieme di tipi di comportamento”: osservando pertanto il comportamento della persona che agisce possiamo individuare lo stato dell’Io che ha generato tali atteggiamenti

.La personalità è caratterizzata da 3 Stati dell’Io: Il Genitore, l’Adulto e il Bambino . L’ individuo quando interagisce, lo fa con  uno dei tre diversi stati dell’Io.

http://munay.it/wp-content/uploads/2010/01/PSYCHOLOGY-230x300.jpgIl Genitore è una registrazione, fedele e incancellabile, di ciò che è Stato detto e fatto dai genitori, dai fratelli e dalle sorelle maggiori, dalle figure autorevoli dell’infanzia e, a volte, perfino dalla televisione.

Vi sono racchiusi consigli, imposizioni, il giusto e lo sbagliato, i rimproveri, le carezze. Poiché provengono da figure essenziali per la crescita, esse non sono soggette a valutazione critica:

“Così si fa”. Tali informazioni, però, benché importanti quando furono archiviate, nella vita adulta si possono mettere in discussione, per sostituirle con altre più aggiornate. Ed è qui che entra in scena l’Adulto, il computer di bordo.

L’Adulto raccoglie, cataloga, valuta e decide il comportamento più indicato, in risposta al “qui e ora”, accerta la validità dei dati, aggiornandoli continuamente grazie all’esperienza. Si forma intorno ai sei anni, cioè il periodo che coincide con la crescita sociale dell’individuo.

Esempio: nel Bambino ci può essere il divieto di avvicinarsi ai fornelli, perché è pericoloso (informazione del Genitore). Tale divieto può essere rimosso in seguito, quando si cresce. Così, l’Adulto archivia l’informazione perché riguardava una situazione che è cambiata.

L’Adulto decide (o dovrebbe decidere) l’atteggiamento da tenere in base al contesto, lo Stato dell’Io da far affiorare nei vari momenti; difatti, a volte è necessaria la fermezza del Genitore, altre volte ancora c’è bisogno della spontaneità del Bambino, oppure si deve valutare criticamente la realtà. La nostra serenità interiore, e di conseguenza il rapporto che abbiamo con l’ambiente esterno, dipendono dallo sviluppo equilibrato dei tre Stati dell’Io.

Il Bambino è lo Stato dell’Io che ci appartiene dalla nascita, rappresenta la nostra parte infantile.

Si può immaginare come un archivio, in cui risiede l’infanzia che abbiamo vissuto, con le caratteristiche, i ricordi, le sensazioni, sia positive sia negative, e tutti i comportamenti collegati. Esso è pertanto la sede dei bisogni , degli atteggiamenti e dei comportamenti della nostra infanzia, legati alle esigenze psicobiologiche più profonde. La soddisfazione o l’insoddisfazione verso un oggetto, introiettata e memorizzata come valore positivo o negativo, determinerà il prodotto della vita sentita che potrà esplicitarsi in creatività e fantasia, o, di contro, in frustrazione e senso di colpa. Lo stato dell’Io Bambino viene formandosi dagli 0 ai 5 anni di vita. Nel Bambino ci sono tutte le disposizioni:

·        impulso ad agire

·        capacità di godere

·        creatività

·        curiosità

·        emozioni e loro espressione

·        invidia-gelosia

·        manipolazione

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Una personalità sana ha bisogno di tutti e 3 gli Stati dell’Io.

Hai bisogno dello Stato dell’Io A per la soluzione dei problemi del qui ed ora, esso ti permette di affrontare la vita in modo efficace e competente. Per adeguarti bene alla società hai bisogno delle regole che hai imparato e immagazzinato nello Stato dell’Io G. Infine hai bisogno di accedere, tramite lo Stato dell’Io B, alla spontaneità, alla creatività e alla capacità intuitiva proprie dell’infanzia.

Il diagramma degli Stati dell’Io è raffigurato con tre cerchi, uno sull’altro: il Genitore in alto, l’Adulto al centro, Il Bambino in basso. Da questo modello prende nome la teoria del GAB. Essi consentono una percezione unitaria della persona, poiché non si escludono, ma vengono piuttosto a legittimare tre diversi “stili” di sentimenti, affettività e comportamenti da utilizzare nelle diverse situazioni del quotidiano, così da permettere il fluire di percezioni e atteggiamenti, determinati dagli innumerevoli stimoli esterni ed interni.

Il Genitore l’ Adulto e il Bambino, si suddividono ulteriormente : Il Genitore si scinde in Affettivo e Normativo, il Bambino in Adattato e Ribelle. L’adulto non è suddiviso. Stephen Karpmann ha evidenziato in ogni stato dell’Io aspetti positivi e aspetti negativi.

Genitore Affettivo

Il Genitore Affettivo registra tutto quello che fecero e dissero i genitori, o chi per loro, quando si prendevano cura di noi: ad esempio carezze, comportamenti protettivi, rimproveri.

Determina il comportamento verso i figli e si divide in positivo e negativo.

Il Genitore Affettivo positivo comprende i comportamenti che proteggono e sviluppano il benessere altrui, senza prevaricazioni ed imposizioni. Il tono di voce è dolce, i gesti sono attenti e rispettosi. Le parole indicano comprensione e affetto. I messaggi sono di fare piuttosto che di non fare. Il prendersi cura degli altri deriva da un autentico rispetto per la persona aiutata. Ad esempio, la mamma che aiuta il figlio nei compiti a casa.

Il Genitore Affettivo negativo raggruppa i comportamenti che derivano dalla poca considerazione della persona da aiutare, tende infatti ad essere iperprotettivo. si sostituisce agli altri facendo le cose al posto loro quando non gli è richiesto e non è necessario frenando perciò lo sviluppo di colui che intende aiutare Il padre ansioso che telefona al figlio ogni mezz’ora, un collega che toglie un progetto di mano dicendo: “Dai qua, ci penso Io”.

Genitore Normativo

Il Genitore Normativo racchiude l’insieme di regole, leggi e comportamenti da tenere nella vita e con gli altri. Raccoglie le informazioni necessarie alla crescita: queste possono andare dal “come si attraversa la strada” a come, in generale, s’apprende a stare al mondo.

Si tratta di un archivio ricchissimo di esempi dei genitori, di proverbi e saperi tramandati di generazione in generazione. Poiché le informazioni sono datate, non sono tutte necessariamente utili o aggiornate, e può capitare che non siano coerenti.

Si consideri il caso in cui una madre dice ai figli di essere gentili con i vicini, salvo poi trattarli con arroganza ella stessa: questa informazione crea confusione, perciò viene ignorata.

Il Genitore Normativo positivo, utilizza le regole per promuovere la crescita e il benessere dell’individuo. Si può immaginare un fratello maggiore che, con pazienza, insegni al minore ad andare in bicicletta.”

Il Genitore Normativo negativo parte da una visione del mondo ristretta e pessimista, che sminuisce le capacità altrui e spesso ricorre al sarcasmo. Un direttore d’azienda che rifiuta a priori tutte le proposte di innovazione dei propri dipendenti si trova nello Stato di Genitore Normativo.

 

Bambino Libero

Il Bambino Libero simboleggia l’istinto e la spontaneità degli Stati dell’Io.

Si tratta della parte più “antica” della nostra personalità (compresa appunto nell’Archeopsiche), e comprende le caratteristiche positive e negative dei bambini: ad esempio, fantasia, allegria, spensieratezza, volubilità, egoismo.

Anche il Bambino Libero si scinde in positivo o negativo.

Il Bambino Libero positivo è felice, simpatico, pieno di inventiva, semplice, spontaneo. Secondo Berne il bambino libero positivo racchiude altre immense risorse e capacità come l’intuito e la creatività: egli attribuisce a questa parte il nome di “Piccolo Professore” (PP).

Il PP funziona come un radar, conferendogli la capacità di avvertire e di captare quelle sfumature di segnali che ci fanno “sentire” le situazioni e le persone al di là delle nostre facoltà e percezioni sensitive-sensoriali; significa capire e conoscere qualcuno e qualcosa guidati dal nostro “Sesto Senso”, quello cioè dell’intuizione e dell’istinto. Grazie alle capacità creative del nostro PP, possiamo anche inventarci auto rassicuranti fantasie che ci permettono di sopportare meglio una situazione stressante e dolorosa.

 

Il Bambino Libero negativo può comprendere l’impulsività, i capricci, la scarsa concentrazione; può danneggiare se stesso e gli altri non tenendo conto della realtà.

Es.: “Facciamo una corsa!” (su una strada pericolosa alterati dall’alcool)

Bambino Adattato

Eric Berne sostiene che la maggior parte degli adulti si trova spesso nello Stato di Bambino Adattato.

Nella situazione originaria, il Bambino è il destinatario dei messaggi che provengono dal Genitore. In questo caso, il Bambino Adattato è un risultato delle regole imposte dal Genitore Normativo.

Si definisce Adattato perché implica un confronto, una mediazione tra le esigenze interne e quelle esterne, tra i comportamenti appresi e quelli istintivi.

Il Bambino Adattato è l’insieme delle reazioni alle imposizioni del Genitore Normativo: in base all’accettazione o meno di queste imposizioni, esso può essere positivo o negativo.

Il Bambino Adattato positivo ha accolto le regole, le ha interiorizzate, le ha trovate coerenti e utili; acquisisce ed utilizza automaticamente quei comportamenti che gli permettono di raggiungere i suoi scopi, ottiene quello che vuole senza disagio per sé e per gli altri, e risparmia un bel po’ di energia mentale.

Ad esempio, il bambino che in famiglia legge la poesia di Natale e riceve gli applausi, o, da adulti, il saper stare a tavola ad un pranzo importante. Il soldato che saluta l’ufficiale, così da non essere punito.

Nel caso in cui le regole non piacciono, o sono contraddittorie, o la fonte da cui provengono non è degna di fiducia., ecco che entra in scena il Bambino Adattato negativo.

Egli reagisce rifiutandosi di adattarsi ai messaggi genitoriali, anche se ciò sarebbe ragionevole: si comporta perciò in maniera lesiva, poiché ha imparato dall’esperienza che così facendo attira l’attenzione degli altri.

Ad esempio: Il soldato che non saluta il suo superiore e poi si chiede quale sia il motivo della sua punizione.

Ci si può ribellare in maniera più sottile: dimenticando, procrastinando, facendo piccoli errori, i capricci, mettendo il broncio, definendosi, autoaccusandosi, sentendosi confusi o arrabbiati.

Questo Stato si chiama anche Bambino Ribelle.

 

 

 

Gli Stati dell’Io non sono attivati tutti contemporaneamente; pensiamo,sentiamo, agiamo con lo Stato dell’Io che in un determinato momento prende il comando sugli altri.

Osservando il comportamento dell’individuo si può individuare quale parte dello stato dell’Io si sta utilizzando, ecco perché queste suddivisioni funzionali possono essere chiamate

descrizioni comportamentali.

L’ individuo percepisce come “ Sé reale” lo Stato dell’Io che in una data situazione predomina sugli altri.

In medicina e nel counseling sarebbe auspicabile che le transazioni avvenissero tra gli Stati dell’Io Adulto anche se questo difficilmente si verifica perché sia il paziente che il cliente soprattutto all’inizio si trovano il primo in uno stato di sofferenza e di malattia e quindi anche di dipendenza rispetto al medico e il cliente si trova in uno stato di incongruenza avendo interiorizzato un copione di vita non costruttivo.

Berne ha definito il copione “un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi, e che culmina in una scelta decisiva”.La teoria del copione sostiene che il bambino redige un piano specifico della propria vita, sotto forma di reazione drammatica che ha un inizio, un punto di mezzo e una fine. All’età di circa quattro anni, le parti essenziali della trama sono già state decise. A

sette anni la storia è completata nei dettagli principali. Nella preadolescenza si dà qualche ritocco o si aggiusta qualche particolare. Durante l’adolescenza si rivede il copione e lo si aggiorna con aderenza alla realtà del momento.

Il copione è decisionale: si basa su una decisione presa nell’infanzia, è pertanto il bambino che decide quale sarà il suo piano di vita. Ne consegue che bambini allevati dagli stessi genitori e nel medesimo ambiente possono decidere piani di vita completamente diversi.

Le prime decisioni del copione derivano dalle emozioni e dall’esame di realtà del bambino, e vengono prese prima ancora che egli abbia la capacità di parola. Il copione è rinforzato dai genitori: attraverso messaggi non verbali e verbali. Tali messaggi di copione che comprendono le ingiunzioni, i permessi, le parole d’ordine (le spinte) costituiscono la struttura di riferimento in risposta alla quale il bambino prende le principali decisioni di copione. E’ in tale modo che i genitori possono esercitare una forte influenza sulla decisione di copioni di un bambino.

Giustificata dagli avvenimenti successivi: la vita di ogni persona si presenta, pur con il variare delle situazioni specifiche, con un’identità di fondo derivante dal fatto che gli avvenimenti, le persone, i problemi che si incontrano nel corso della vita vengono affrontati e gestiti sempre in modo abbastanza similare, basandosi sulle convinzioni prese durante l’infanzia. Spesso non facciamo altro che interpretare la realtà all’interno della nostra struttura di riferimento, cosicché essa possa giustificare le decisioni del copione prescelto. Ognuno di noi svolgendo il proprio copione ricalca le orme del passato, ripropone schemi e modelli di comportamento appresi, replicandoli nel “qui ed ora” in modo automatico e spesso involontario.

Il copione culmina in una scelta decisiva (finale): la scena finale è detta tornaconto del copione, ed è stata scelta quando il bambino piccolo ha scritto la storia della propria vita.

Il carattere di ripetitività del copione ci rivela che, quando da adulti si realizza il copione, senza alcuna consapevolezza, si scelgono dei comportamenti che permettono di raggiungere il tornaconto del copione prescelto. Quando le decisioni di copione permettono di affrontare bene la realtà, si ha un copione costruttivo detto vincente. È il copione delle persone che riescono a vincere nella propria vita in senso completo, che cadono ma si rialzano, che realizzano gli obiettivi prefissati nel pieno rispetto dei propri bisogni.

Si ha, invece,un copione banale o non vincente quando le persone tendono ad accontentarsi di vivere all’ombra dei vincenti e le decisioni prese non gli permettono sempre di affrontare bene la realtà in modo completo e di sentirsi gratificati.

Un tipico copione banale femminile è quello della casalinga tutta dedita ai lavori di casa: questa utilizza prevalentemente il suo Genitore Affettivo con i figli e con il marito, non utilizza il suo Adulto tranne che per le incombenze domestiche, né il suo Bambino per entrare in vera intimità con gli altri.

Un copione maschile è quello dell’uomo d’affari che lavora indefessamente agendo quasi esclusivamente con il suo Adulto ed evitando le intimità ed il contatto con il suo Bambino.

Si ha un copione perdente quando le decisioni di copione non aiutano a gestire efficacemente la realtà e si ricevono solo riconoscimenti negativi. È tipico delle persone disilluse che non credono in nulla e non hanno fiducia in nessuno.

Ognuno in base al tipo di copione interpretato assume una propria specifica “posizione di vita o esistenziale” che rispecchia il grado di giudizio, stima, accettazione che abbiamo di noi stessi e degli altri.

Il termine di maglietta è usato per indicare la caratteristica generalmente non verbale, che contraddistingue l’essere umano e che invoglia gli altri a dare una determinata risposta.  Ad esempio una persona che cammina con le spalle curve e con una faccia ansiosa incontrerà o un carnefice che vuole torturarla o un Salvatore che vuole salvarla.

La maglietta porta sul davanti un motto che è quello che noi consapevolmente vogliamo che il mondo veda. Dietro c’è un messaggio segreto al livello psicologico, ed è quello che determinerà chi sceglieremo nei rapporti.

Ogni posizione di vita è incentrata sul principio del sentire noi stessi e gli altri OK o non OK.

Essere Ok significa essere capaci di vivere il rapporto con se stessi e con gli altri, in modo libero, autonomo, positivo e spontaneo, e di affermare se stessi nel pieno rispetto degli altri. Gli atteggiamenti in relazione a sé e agli altri sono fondamentalmente quattro:

1) IO NON SONO OK - TU SEI OK

2) IO NON SONO OK - TU NON SEI OK

3) IO SONO OK - TU NON SEI OK

4) IO SONO OK - TU SEI OK

1) Il primo è l'atteggiamento della primissima infanzia; in esso è presente un aspetto positivo, dato dalle carezze. L'aspetto negativo è l'accumularsi, nel bambino, di stati d'animo negativi su di sé: egli, a causa della sua piccolezza e debolezza, si considera inferiore agli adulti che lo circondano. Questo discorso può essere rapportato ad un adulto, che si sente alla mercé degli altri e ha un grande bisogno di carezze o di riconoscimento.

2) Consideriamo ora il secondo caso: tutti i bambini, superata l'infanzia, inizialmente giungono alla prima conclusione. Se, subito dopo, cioè dopo il primo anno di vita, incontrano troppe difficoltà, cessano le carezze e aumentano le punizioni, allora può accadere che ricadano in questo secondo caso. Un individuo che assume questo atteggiamento, si arrende, si chiude in sé e arriva a rifiutare lui stesso le carezze.

3) Nel terzo caso, avremo a che fare con un bambino che, trattato in modo brutale, a lungo, dai propri genitori, assume di essere OK; ma da chi potrà ricevere le carezze, se i suoi genitori sono ritenuti NON OK? Forse, proprio da se stesso e dalle proprie capacità di reazione. Una persona che mantenga tale atteggiamento, è vittima della mancanza di carezze: può essere addirittura un criminale.

4) Nel quarto atteggiamento è riposta la speranza. I primi tre sono inconsci poiché appartengono ai primi stadi dell'infanzia; questo, invece, presume una decisione cosciente e si basa sulla fiducia.

E' importante dire che "non si assume un nuovo atteggiamento lasciandosi trasportare dalle cose, bensì decidendo di adottarlo". L'unico modo di diventare OK consiste nel rivelare la condizione infantile che sta alla base dei primi tre atteggiamenti e dimostrare che il comportamento attuale non è altro che la loro perpetuazione.

Il copione di vita, dunque, può essere cambiato, rideciso e riscritto se l’uomo recupera la propria autonomia e si libera dai condizionamenti interni ed esterni imposti ed autoimposti, dandosi il permesso di essere realmente se stesso.

Il Counseling ha come obiettivo quello di promuovere la chiusura di un copione non costruttivo e di avviarne uno migliore stimolando l’autonomia del cliente che può essere raggiunta attraverso la riconquista della consapevolezza, della spontaneità e dell’intimità.

Il Counselor pertanto, a seconda della situazione potrà esprimere e fare entrare in risonanza i suoi stati dell’Io con quelli del cliente. Con ciascuno stato dell’Io il Counselor offre un dono al cliente:

·        lo stato dell’Io Genitore offre Protezione al cliente, dando permessi costruttivi che favoriscono la crescita psicologica ed emotiva del cliente.

·        Lo stato dell’Io Adulto: offre il Permesso lascia il cliente libero di scegliere e di liberarsi da qualsiasi condizionamento del passato

·        Lo stato dell’Io Bambino dona la Potenza che consiste nell’esprimere creatività ed entusiasmo in modo che il cliente riesca nuovamente a contattare le proprie emozioni ed i propri bisogni in modo spontaneo.

Il Counselor fornendo le tre P: permesso protezione e potere si propone come obiettivo quello di mettere il cliente nelle condizioni di procurarsi da solo il permesso, la protezione ed il potere.

Attualmente la medicina non ha una visione olistica dell’uomo e quindi antropocentrica ma organocentrica cioè il medico guarda la malattia, guarda l’organo. Ha estrema difficoltà a considerare nel suo insieme la persona.

Il Medico, Counselor, al contrario considera il paziente nella sua globalità e attraverso la congruenza e la spontaneità fa sentire il “paziente Ok come persona” garantisce protezione al paziente, ma al tempo stesso pur consigliandolo lo lascia libero di scegliere un percorso terapeutico al posto di un altro.

Talvolta proprio perché il paziente è un individuo sofferente si trova in uno stato di incongruenza agisce con lo Stato dell’Io bambino e ricerca nel Medico una figura Genitoriale normativa che lo rassicuri e lo indirizzi verso una cura.

Attraverso l’empatia, e una comunicazione aperta e spontanea il Medico, in particolare colui che ha acquisito competenze in Counseling, dovrebbe reindirizzare il paziente verso uno Stato dell’Io adulto affinchè il rapporto si svolga alla pari ed il paziente possa sentirsi autonomo e padrone del proprio destino ma supportato e preso in cura dal medico.

Come nel Counseling, medico e paziente fanno un percorso insieme e l’aiuto dato dal medico al paziente è dato anche dalla relazione che si instaura tra i due.

La differenza risiede nel fatto che il medico oltre alla relazione deve svolgere un’azione: o tramite la somministrazione di farmaci oppure agendo chirurgicamente.

In medicina, dunque, da un lato c’è l’aspetto legato alla relazione e quindi l’aiuto attraverso la relazione. Dall’altro lato c’è l’aiuto attraverso un atto, attraverso un’azione.

In conclusione, si può dire che la dimensione relazionale completa ed integra .il lavoro del medico consentendogli di svolgere egli stesso un percorso di crescita che lo arrichisce spiritualmente ed umanamente.


 

Descrizione del la figura del medico nella tradizione medica tibetana

“… il medico deve essere dotato di una mente analitica, esercitata nello studio e provvista di una certa facoltà intuitiva; deve essere disposto a curare ogni paziente come fosse la propria madre, deve essere calmo nel corpo, nell’eloquio e nella mente, la calma del corpo si manifesta nell’accurata attenzione nel predisporre le medicine; la calma nell’eloquio ha lo scopo di risollevare il morale del paziente, di farlo rilassare e metterlo a suo agio; la calma mentale infine consiste nel rimanere vigile e attento mentre si applica alla diagnosi e alla terapia del male …[3]”.


Deontologia, etica e bioetica

La parola deontologia è stata coniata dal filosofo J. Bentham (1748-1832) per indicare lo studio e l'elencazione di un particolare gruppo di doveri inerenti una determinata professione. Usato come aggettivo della parola "etica" ("etica deontologica"), designa, invece, un particolare tipo di etica basata sulla nozione di dovere assoluto, che si contrappone ad altre etiche basate su concetti, ad esempio, di felicità o di virtù. La più nota etica deontologica in ambito Occidentale è quella formulata da Kant. Il termine etica è più vasto di quello di deontologia, e comprende non solo lo studio dei doveri, ma anche delle scelte pratiche degli esseri umani, considerate come la risultante di un concorrere e confliggere di differenti beni, diritti, doveri, obbligazioni, cercando di dare basi razionali alle scelte che devono essere effettuate, o di mostrare le ragioni o la mancanza di ragioni di queste scelte. L'etica di conseguenza non è direttamente interessata alle basi psicologiche del comportamento umano tuttavia la domanda centrale a cui l'etica cerca di rispondere non è quali siano le condizioni psicologiche in base alle quali si sceglie un bene piuttosto che un altro, ma se esistono fondamenti razionali al di là delle preferenze psicologicamente determinate per scegliere un bene piuttosto che un altro.

Il punto essenziale è che il modo in cui gli individui costruiscono il loro mondo morale interno è assolutamente irrilevante nel giudicare la validità degli argomenti utilizzati per giustificare tale mondo morale. Non tutte le scelte sono naturalmente di pertinenza etica, lo sono piuttosto quelle che concernono ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Scegliere tra un gelato alla vaniglia ed uno al cioccolato può essere, ad esempio, un'impresa ardua, ma non riguarda l'etica, quanto il gusto. Al contrario scegliere tra dilapidare tutti i propri risparmi o donarli, invece, in beneficenza è una scelta etica, cioè riguarda un giudizio morale attorno a ciò che è giusto che un essere umano faccia o non faccia. L'etica medica riguarda dunque ciò che è bene e ciò che male in relazione alla professione medica. L'etica medica tradizionale, ai suoi inizi, non era un'etica deontologica, ma era soprattutto un’etica delle virtù, cioè un’etica che descriveva le caratteristiche che doveva possedere un medico per essere un buon medico. Le virtù che il medico principalmente doveva possedere erano la compassione, la dedizione, l’amore per l’umanità. Tuttavia, verso la metà dell’Ottocento le nascenti società professionali cercarono di definire uno standard etico - professionale comune. Per far ciò si rivolsero ad una tradizione antica che risaliva da un lato ai circoli medici pitagorici dell’antica Grecia dall’altro alla prima cristianità. Sia nei circoli pitagorici sia nella prima cristianità veniva attribuito al medico un particolare carisma per cui egli si poneva in una posizione “quasi sacerdotale”. Un ethos cristiano-ipprocratico (riletto alla luce dell'umanitarismo scientifico ottocentesco) costituì dunque la base dei nascenti ordini professionali medici. Si affermò, cioè, il concetto che un medico è definito non solo in base a ciò che sa (alla sua scienza) ma anche in base a ciò che uniforma il suo agire (la sua coscienza): di scienza e coscienza divennero garanti gli Ordini e le società scientifiche, assicurando al paziente non solo uno standard scientifico ma anche uno standard etico. Il medico divenne, così, una sorta di sacerdote laico, simbolo di un amore per l'umanità tollerante e compassionevole, illuminato dal sapere della scienza. Questo modello ha retto la professione medica, sino alla metà del Novecento, entrando in crisi, pressoché in tutto il mondo, negli anni sessanta e settanta del nostro secolo. Dalla crisi del modello di "medico virtuoso", e da una parallela diffusa sfiducia nei confronti del progresso scientifico come inevitabile portatore di progresso sociale e umano, nacque la moderna bioetica.

Infatti, verso la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70 si sviluppò un movimento di critica sociologica alla medicina rivolto soprattutto contro la "medicalizzazione" della società, cioè contro ogni tentativo di trasformare conflitti sociali e culturali in questioni medico-biologiche. Questo movimento si intrecciò variamente con il sorgere delle prime organizzazioni di pazienti e con una nascente critica alla medicina tecnologica che si sviluppò in ambito filosofico e teologico (si pensi a M. Focault ed I. Illich, ad esempio).

Ben prima che la stessa parola "bioetica" fosse inventata, film quali "L'arancia meccanica" o "Qualcuno volò sul nido del cuculo", divennero simbolo di una rivolta contro lo strapotere medico e contro la crescente disumanizzazione introdotta dalle nuove tecnologie.

Il termine bioetica, dall'unione di bios (vita) ed ethos (etica), fu utilizzato la prima volta dall'oncologo statunitense V. R. Potter nel 1971, ma la definizione classica è quella che si trova nella Encyclopedia of Bioethics, un’opera collettiva pubblicata nel 1978: "bioetica è lo studio sistematico della condotta umana nell'area delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei principi morali" (Reich W. T., 1978). In una prima fase l'attenzione della bioetica si rivolse soprattutto ai diritti dei pazienti e fu tutta focalizzata sul rapporto duale medico e paziente. La bioetica definì, infatti, alcuni principi che potessero divenire regole generali a garanzia soprattutto dei pazienti. La grande paura era quella di una società espropriante, custodialistica e paternalistica, che sottraesse al cittadino il diritto di disporre del proprio corpo e della propria salute.

Nel 1979 la Commissione Belmont, istituita dal presidente degli Stati Uniti per cercare di definire un minimo etico comune, enunciò i famosi quattro principi della bioetica:

1.      Rispetto dell’autonomia del paziente;

2.      Impegno ad agire per il suo bene;

3.      Impegno a non nuocere;

4.      Rispetto di un criterio di giustizia nella distribuzione delle cure.

Questi quattro principi, nell'intenzione dei loro ideatori, costituirebbero il minimo comun denominatore di ogni etica (laica, religiosa, deontologica, utilitarista, ecc.) applicata alla medicina e dovrebbero quindi aiutare a fondare un linguaggio comune alle diverse posizioni morali.

Verso la metà degli anni 80 nacque tuttavia, in molti studiosi, la consapevolezza che la gran parte delle questioni bioetiche aveva in realtà a che vedere con l'intera comunità piuttosto che con il singolo individuo e che la medicina stessa era sempre, in definitiva, medicina di comunità. Così, se pure rimaneva giusto difendere i "principi" della bioetica, essi correvano il rischio di rimanere solo astratti enunciati, se non si articolavano nel mondo della sanità quale esso concretamente era. L'interesse si spostò quindi verso questioni di politica sanitaria, e studiosi come D. Callahan richiamarono, tra i primi, l'attenzione al problema della giustizia nell'allocazione delle risorse e ai problemi etici in economia sanitaria (Wikler D, 1997).

Nel 1997, infine, il Consiglio d'Europa ha portato alla firma dei ministri la "Convenzione Europea sulla Biomedicina e i Diritti Umani", una carta dalla lunga e complessa genesi, che costituisce il primo documento interstatale sulla bioetica con valore obbligatorio per tutti gli Stati che lo ratificheranno. La bioetica, che si era sempre occupata di diritti negativi, cioè di diritti di libertà (il diritto a scegliere, il diritto a rifiutare le cure), è giunta così a occuparsi di diritti positivi, cioè diritti che implicano obbligazioni da parte di altri, ed, in particolare, da parte degli Stati.

Possiamo, pertanto riassumere che Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell'Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.

La salute, definita nella Costituzione dell’OMS, come "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia", viene considerata un diritto e come tale si pone alla base di tutti gli altri diritti fondamentali che spettano alle persone.

Analogamente il medico deve sapere, saper fare, saper essere. Ai primi due obiettivi provvede (o almeno dovrebbe provvedere) l'università a livello sia culturale (didattico) sia esperienziale (tirocinio). Per saper essere medico, nell'accezione odierna, occorrono ulteriori dosi di formazione culturale (informazione) e di formazione esperienziale alla relazione con il paziente.

Il concetto di sapere, saper fare, saper essere è una delle principali caratteristiche che deve avere un Counselor per cui se durante la sua formazione il medico riuscisse a seguire un percorso di studi tali da acquisire competenze in tal senso potrebbe aggiungere alla sua pratica professionale quell’ esperienza relazionale tale da riuscire a contribuire non solo al benessere fisico ma anche emotivo e sociale del paziente; infatti il benessere fisico si può perseguire attraverso la conoscenza dell’arte medica in ogni sua forma ed è quindi legata al sapere e al saper fare del medico, il benessere emotivo e sociale può essere perseguito solo attraverso la relazione con il paziente e non può prescindere da esso, dalla conoscenza della sua persona e del suo mondo e quindi legata al “saper essere” del medico in termini di accoglienza, empatia, comunicazione verbale e non verbale e conoscenza del pensiero umano.


Il counseling medico

Il tema del Counseling medico fu ispirato dal medico e psicoanalista inglese Balint. Quanto emergeva dalla sua esperienza era che la competenza tecnica del medico, sicuramente necessaria, non bastava. Anzi, in alcune circostanze poteva addirittura essere di ostacolo alla costituzione di una buona relazione medico-paziente, limitando alcuni aspetti essenziali del processo di cura. Da allora l’esperienza del Counseling medico si è sviluppata e ampliata, coinvolgendo argomenti di carattere filosofico e bioetico, psicologico e culturale.

Il “Counseling medico” indica le abilità e le qualità necessarie in ambito sanitario per facilitare la comunicazione nella situazione di cura; prevede, inoltre, diagnosi fisica, prescrizione di farmaci, esami specialistici, ricoveri ed è di pertinenza esclusiva del medico.

Ha la funzione di stimolare l'anamnesi esistenziale e relazionale del vissuto del paziente (non solo la malattia ma anche il malessere), la co-costruzione tra medico e paziente di una buona alleanza terapeutica, del significato del vissuto di malattia e l'apertura progressiva della biomedicina ai contributi delle medicine complementari, naturali e del quotidiano.

Il counseling medico è una relazione di aiuto, all’interno della quale il paziente si sente ACCOLTO, ASCOLTATO, COMPRESO, ORIENTATO e finalmente CURATO.

Il processo di guarigione passa necessariamente attraverso l’atteggiamento del medico che accoglie, ascolta, comprende, proprio nel senso di “prendere insieme” al paziente il senso della sua malattia (la sua storia) e riorganizzarla in funzione di un cambiamento. Il cambiamento altro non è che il passaggio da uno stato iniziale a uno successivo ed in questo senso coincide perfettamente con la terapia.

Il Counseling medico risulta pertanto una delle componenti fondamentali nel rapporto medico-paziente e non può prescindere da esso. In questo quadro, l’ipotesi di fornire al personale sanitario strumenti di counseling può rappresentare un modello di sviluppo delle professioni sanitarie per riavvicinare gli individui e i loro mondi della vita quotidiana alle strutture sanitarie.

L’aspetto comunicativo sembra la principale lacuna di cui soffre il mondo della salute e della malattia ed è proprio questo aspetto la principale risorsa del Counselor. Sono numerosi gli esempi di questo importante gap relazionale: l’aumento esponenziale delle denuncie di malpractice; l’aumentata prassi dell’auto-cura; la consuetudine dei cittadini a cambiare spesso medico, ecc. Tra le principali ragioni di questi fenomeni sembra che l’insoddisfazione dovuta alla qualità dell’incontro relazionale umano tra operatori sanitari e pazienti sia la principale. Questo accade principalmente perché i “linguaggi” di queste due categorie appaiono sempre più distanti e incomprensibili. Quando viene richiesto agli operatori sanitari di indicare le principali difficoltà che riscontrano nella comunicazione con i pazienti, la maggior parte di essi fa riferimento alla chiarezza, alla comprensibilità del messaggio inviato, difficoltà scaturente spesso da un’iper-tecnologizzazione del linguaggio bio-medico, il quale sembra perdere di vista il vero referente delle sue attività, l’essere umano sofferente, il quale viene spesso ridotto all’organo malato o nei casi migliori incasellato in fredde linee guida, non viene ascoltato e non viene analizzata la sua narrazione di sofferenza, perdendo così informazioni fondamentali per intervenire sulla patologia.

Il linguaggio sembra essere il primo ostacolo che disturba la reciproca comprensione, spesso connesso con l’uso e l’abuso di termini tecnici. Spesso l’incomprensione è connessa alla competenza linguistica dell’ascoltatore che può incidere notevolmente sulla comunicazione. L’impiego di termini difficili e di uso non comune può rendere difficile la comunicazione: parole come “accanimento terapeutico”, “posologia”, “cronicità”, “neoplasia”, “angiografia” non sono necessariamente presenti nel dizionario personale di chiunque; questa difficoltà viene inoltre accentuata dalla bassa scolarizzazione della maggior parte dei malati dei nostri tempi, infatti, moltissime ricerche epidemiologiche indicano il massiccio aumento di patologie cronico-degenerative, le quali hanno come bersagli privilegiati gli anziani e gli indigenti, categorie sociali generalmente poco acculturate e scolarizzate. Il rischio di incomprensione è in questi casi accentuato dal fatto che le persone sovente si vergognano di chiedere delucidazioni nel timore di sembrare ignoranti, e il silenzio fa pensare a chi parla di essere stato capito.

Il rischio di una comunicazione distorta e inefficace esiste anche quando si utilizzano termini di uso comune, poiché non è detto che il significato a esse attribuito sia il medesimo per ambedue gli interlocutori. Il senso che uno dà a una parola è frutto della sua storia personale, della cultura a cui appartiene, delle emozioni che a quei termini si collegano, del lessico familiare o amicale.

Ad esempio, la parola “sfogo” ha, nel linguaggio comune, una connotazione negativa, essendo spesso riferita a una manifestazione esteriore di un malessere interiore: sfogo epidermico di un’alterazione interna al corpo; sfogo di pianto per un dolore interiore; etc; per il Counselor uno sfogo del cliente può essere un indizio che si và nella direzione giusta nella relazione di aiuto, spesso esplicita la riuscita della connessione empatica; in una relazione amicale lo sfogo è sintomo di confidenza. Questo esempio mette in evidenza come il significato denotativo di un termine non deve essere assunto in maniera semplicistica e veloce, ma deve essere contestualizzato ed esplorato in profondità, nel tentativo di cogliere tutti gli eventuali significati attribuiti, dal paziente.

La distanza tra i significati è ancora più evidente quando si utilizzano figure retoriche, metafore, giochi di parole o battute di spirito: una metafora adeguata e condivisa dai partecipanti alla comunicazione è spesso fondamentale per definire concetti complessi, che richiederebbero pesanti parafrasi verbali, ma non è sempre così e non è sempre facile riuscirci, infatti, anche in questo caso, bisogna considerare il campo cognitivo dell’altro.

La possibilità di fraintendimento ed equivoco è ancora più probabile quando si formulano battute umoristiche: a volte si utilizzano per cercare di sdrammatizzare una situazione difficile, ma non di rado avviene che l’altro si senta deriso e preso in giro. La prudenza e la cautela sono in questi casi d’obbligo, tanto più se si ignora del tutto il significato che l’altro o gli altri danno alle parole e ai concetti; e del resto nulla è più imbarazzante di una battuta che suscita, anziché riso o allegria, una reazione di gelo, di chiusura o di difesa.

Un medico-counselor, avendo sviluppato delle capacità relazionali più spiccate, dà estrema importanza all’umorismo nella relazione d’aiuto. Non si può, infatti, non tener conto che l’umorismo, con il suo legame con l’emotività e l’istintualità dell’essere umano, è parte delle relazioni interpersonali ed elemento pregnante della cultura di ogni popolo. Come già ebbe a dire Klüver, la vita intera sembra essere un susseguirsi di barzellette, di cui spesso non riusciamo a riconoscere l’aspetto umoristico (in Bateson 1953, pag. 22). La comicità è dentro la vita e con la vita entra anche nella relazione tra gli individui.

È molto importante ridere con l’altro e mai ridere dell’altro e un’impostazione che aiuta a non uscire dall’eticità della relazione e ridere per primi di se stessi e della propria onnipotenza.

I limiti tra umorismo ed ironia, talvolta, sono estremamente permeabili,per cui tale facoltà va usata con grande prudenza e dopo avere acquisito una certa esperienza relazionale, ed una buona alleanza terapeutica con il paziente; anche se l’umorismo stesso può contribuire migliorare esso stesso l’alleanza terapeutica.

Stimolare l’umorismo nel paziente innesca una serie di emozioni vitali come il piacere e il sentirsi vivi e di conseguenza alimenta la speranza di guarigione. Inoltre incrementa l’ossigeno ai polmoni, aumenta la resistenza cardio-polmonare, migliora la circolazione sanguigna, fa diminuire la produzione di cortisolo e soprattutto potenzia il sistema immunitario stimolando la produzione di adrenalina, dopamina e beta-endorfine, analgesici endogeni. Tutte condizioni che potenziano qualsiasi cura prescritta dal medico

Anche l’utilizzo di numeri per veicolare un’informazione al paziente, per indicare la probabilità di sviluppare una data malattia o una complicanza può ostacolare la comunicazione tra medico e paziente, per il crescente “analfabetismo numerico” che colpisce molti individui indipendentemente dalla cultura e dalla posizione sociale.

In altri termini, davanti ai numeri molte persone bloccano ascolto e comprensione e tendono a dimenticare rapidamente le cifre. E’ inoltre molto difficile per un individuo, che si percepisce come una singola unità, identificarsi con una percentuale. Questo per ricordare che i numeri nella comunicazione vanno usati solo se assolutamente necessario e facendo attenzione che quanto diciamo abbia davvero senso per l’altro. L’uso eccessivamente disinvolto di numeri, percentuali, valori soglia e così via può rendere il messaggio oscuro e produrre inoltre malintesi.

Un altro aspetto da considerare e che spesso le cose ritenute importanti non sono necessariamente le stesse per l’uno e per l’altro degli interlocutori. Se le priorità non coincidono, la comunicazione si fa difficile e succede spesso, in questi casi, che il professionista, a cui appare chiaro, evidente, scientifico che le informazioni che lui deve dare sono le più utili, le più vantaggiose per il maggior benessere dell’altro, non tenga in considerazione ciò che per l’interlocutore è invece importantissimo. Esplorare le priorità dell’altro o degli altri prima di dare informazioni o indicazioni è invece una mossa comunicativa fondamentale: se, infatti, l’altro avverte che ciò a che a lui sembra importante non è preso in considerazione dal professionista, semplicemente smette di ascoltare o assume un atteggiamento ostile e pregiudiziale. La possibilità di instaurare una comunicazione efficace e produttiva si interrompe sul nascere e tra i due lo scambio diventa più improbabile, inoltre ricucire una divergenza creata dalla delusione è piuttosto difficile. I pericoli di questo processo relazionale fallito sono molti: il professionista può interpretarlo come accettazione e comprensione di quanto dice, e non indagare oltre, scoprendo solo troppo tardi che le sue informazioni e le sue prescrizioni sono cadute nel vuoto, quando il fenomeno della non-compliance si è ormai strutturato provocando i suoi danni.

Un’altra frequente causa di blocco della comunicazione, quindi di incomprensione e di malintesi, riguarda l’accettabilità e la praticabilità delle informazioni e delle indicazioni da parte di chi le riceve. Spesso i professionisti della salute si dilungano in prescrizioni note e banali oppure impraticabili, compromettendo la sintonizzazione del paziente il quale crede di essere già informato al proposito, per cui smette di ascoltare. All’interno di queste possibilità si possono presentare i seguenti esempi:

“fumare fa male”

“mangiare i grassi animali è nocivo”

“vai in palestra”

“si prenda momenti di pausa dagli impegni quotidiani”

“fai regolare esercizio fisico”

“un solo bicchiere di vino a pasto e non di più”

Queste affermazioni, per quanto veritiere e fondamentali, vengono recepite come poco interessanti e scontate, non stimolano l’attenzione dell’ascoltatore, il quale si distrae e rischia di perdere indicazioni importanti. Questa situazione si verifica soprattutto se la comunicazione non viene fatta in maniera congruente, cioè se non c’è coerenza tra linguaggio verbale e non verbale, tra comunicazione simbolica e narrativa, modulata in base alle caratteristiche dell’ascoltatore. Spesso l’operatore sanitario utilizza lo stesso tipo di messaggio per tutti i pazienti, dall’anziano al giovane, dal cardiopatico al dializzato; mentre ogni messaggio andrebbe diversificato in base all’individuo e quindi diverso di volta in volta, affinato di volta in volta dal medico che progressivamente diventa più intuitivo e sensibile alle esigenze del paziente.

La ricerca di un dialogo più profondo e aperto, di informazioni più adeguate, accanto ad un coinvolgimento maggiore nelle decisioni riguardo ai provvedimenti da prendere rende il paziente più collaborativo; che accetta più di buon grado l’idea di abbandonare abitudini dannose come il fumo, l’alcool e di condurre uno stile di vita più salutare.

Spesso il problema di un cattivo rapporto medico-paziente risiede nella comunicazione; infatti, i pazienti si sentono dire sempre le stesse cose, spesso si sentono dei numeri e non delle persone perché non si considerano le loro specifiche situazioni, la loro sofferenza. Dall’altro canto alcuni medici sono talmente stufi, sbrigativi, che dedicano non più di due minuti a paziente con il risultato che il paziente è insoddisfatto e soprattutto non segue le indicazioni che gli vengono date.

Un altro scoglio importante da tenere presente nella comunicazione al paziente è l’accettabilità del messaggio, essa ha a che fare con i principi dell’individuo, siano essi religiosi, culturali o etici: spesso la persona capisce perfettamente il senso del messaggio, ma non può metterlo in pratica perché non ne accetta le premesse. Se questo campo non viene esplorato, il professionista può pensare di non essersi espresso con sufficiente chiarezza oppure che l’altro si comporti in modo irragionevole. Esempi lampanti di questa situazione sono l’impossibilità di praticare trasfusioni di sangue ai testimoni di Geova o le difficoltà connesse all’accesso al corpo da parte di operatori sanitari del sesso opposto a quello del paziente, situazione ricorrente con individui eccessivamente ortodossi sia di religione cristiano-cattolica che islamica.

Si fa esperienza tutti i giorni della necessità di figure intermedie, di ponti tra linguaggi diversi, di ruoli sfumati ispirati dalla multidisciplinarità e dalla tolleranza, che cercano l’integrazione. Anche i ruoli consolidati come il medico o l’infermiere si trovano a rendersi conto di questa necessità e chiedono aiuto. In sanità il ruolo di esperto dei differenti linguaggi umani, incarnato dal Counselor, comincia ad essere necessario, ed è un’esigenza avvertita anche dai diretti interessati: gli studenti di medicina, i medici, gli infermieri, i pazienti.

La malattia e la salute sono universi complessi, in cui le diverse componenti si intersecano e si influenzano a vicenda. La malattia non è solo “disturbo fisico”, ma è anche “ruolo sociale”, e anche “vissuto interiore”.

Il counselor gioca un ruolo perché comprende e fa comprendere al medico il vissuto interiore del paziente, esplora sensibilmente l’anima di quest’ultimo attraverso l’ empatia e un ascolto attivo. Infatti c’è differenza tra corpo vissuto ed organismo. Il medico controlla fatti che di per sé non hanno un significato di vita. Il medico vede il male, il paziente sente il dolore, due cose diverse. Il dolore è un vissuto soggettivo che il paziente narra, non coincide col male oggettivo che il medico cerca. Il dolore eccita e contride il corpo e pervade la vita, modificando la qualità delle relazioni, la forma degli affetti, il ritmo delle attività, la considerazione di sé. Uno è sano quando il corpo se lo dimentica. Se mi ammalo non coincido più col mio corpo. Sembra che la percezione del corpo della persona che si ammala o che è in salute sia assolutamente incomunicabile, inconoscibile, incondivisibile.

I termini in inglese indicano perfettamente come il concetto di malattia sia diverso a seconda dell’ambito in cui lo consideriamo:

·      Disease (il disturbo fisico, la cui competenza spetta principalmente al medico, anche se molte volte la manifestazione bio-organica altro non è che una conseguenza di un malessere psico-sociale;

·      Sickness (il ruolo sociale del malato);

·      Illness (il vissuto emotivo del malato).

Questi tre possibili modi di interpretare e leggere la malattia non possono essere che considerati.

La capacità di comunicare, l'accoglienza e l'ascolto, l'anamnesi dettagliata e intima, il calmo incoraggiamento alla fiducia, l'implicita accettazione senza riserve della richiesta d'aiuto che il paziente avanza, il freno alla pericolosa pretesa di onnipotenza che alcuni medici ritengono opportuno esibire, il rispetto assoluto del malato, l'umiltà di calarsi empaticamente nei suoi panni per meglio capirlo sono le qualità di un buon medico che mette al primo posto la relazione con il paziente e consentono di considerare i vari aspetti della malattia.

 


La comunicazione nella relazione d’aiuto

Comunicare dal latino comunis :che appartiene a tutti, significa propriamente “mettere qualcosa in comune con gli altri”. Quando parliamo di comunicazione, parliamo di come usare le varie possibilità che abbiamo per entrare in relazione con un altro essere umano. Non e' possibile non comunicare, sembra una affermazione banale, ma non e' vero. In ogni contesto di vita si crea la legge della comunicazione.

Nel trasmettere informazioni vi è una interazione nella quale vengono trasmesse sia informazioni di contenuto attraverso la comunicazione verbale, sia informazioni inerenti alle emozioni attraverso una comunicazione non verbale.

Ogni comunicazione contiene un aspetto verbale ed un aspetto analogico, cioè non verbale. Infatti noi non comunichiamo soltanto le parole, che dicono il contenuto della comunicazione ma dobbiamo tener conto anche della comunicazione non verbale.

Albert Mehrabian ha appurato che l’incidenza di un messaggio è :

·        Per il 7% verbale  (PAROLE); componente linguistica

·        Per il 38% vocale (TONO DI VOCE, INFLESSIONE, MUSICALITA’); componente paralinguistica

·        Per il 55% non verbale (SGUARDO, POSIZIONI, GESTI, ESPRESSIONI, ATTEGGIAMENTI, MOVIMENTI); componente cinesica e componente prossemica (le distanze).

 

IL ruolo della comunicazione nel rapporto medico-paziente è stato analizzato nei dettagli da tre psicologi: Rainer Bec, Rebecca Daughtridge e Philip Stoane che hanno spulciato un trentennio di letteratura sul tema, traendone delle interessanti conclusioni.

.Per trasmettere in modo adeguato un messaggio, è necessario attuare una comunicazione decentrata, ossia per l’altro (opposta a quella egocentrica) che implica:

·      flessibilità comunicativa: volontà e capacità di adattarsi al proprio interlocutore

·      flessibilità semantica e di schemi di riferimento: consapevolezza che il senso di gesti e parole può essere interpretato diversamente in base ai diversi contesti e interagenti

·      role taking: capacità di assumere il punto di vista dell’interlocutore

·      ri-codifica: dopo aver codificato ciò che intendo trasmettere all’ interlocutore, lo adatto (ri-codifico) in base alle sue caratteristiche

·      disponibilità emotiva: accettare l’altro anche dal punto di vista emotivo significa porsi in una relazione simmetrica

 

Nella COMUNICAZIONE VERBALE con il paziente distinguiamo:

·         Un ASPETTO INFORMATIVO in cui il medico da informazioni corrette su DIAGNOSI PROGNOSI e TERAPIA.

·         Un ASPETTO PERSUASIVO in cui il medico esprime verbalmente concetti col fine di produrre cambiamenti sulle opinioni del paziente, sulla sua salute, sul significato dei suoi sintomi, sul vantaggio connesso all’assunzione di un farmaco.

·         Nella COMUNICAZIONE NON-VERBALE un ruolo fondamentale è svolto da:

·         IL CONTATTO FISICO es. stretta di mano

·         LO SGUARDO

·         L’ESPRESSIONE FACCIALE E MIMICA

·         LA VOCE

·         ALTRI INDICI: Gestualità delle mani e degli arti, postura, collocazione spaziale

Es. distanza e barriere fisiche.

La ricerca di questi studiosi ha fatto emergere che esistono almeno 20 atteggiamenti verbali che incidono favorevolmente sul rapporto clinico e 14 in modo negativo. Sul versante del linguaggio del corpo invece sono apparsi rilevanti 16 comportamenti; alcuni dei quali rendono la relazione più appagante, altri provocano insofferenza e delusione.

Cominciando dal dialogo, è fondamentale il fatto che il medico stia ad ascoltare ciò di cui il paziente si lamenta e dia segno di aver compreso a fondo il problema; inoltre, è molto importante che incoraggi il paziente a fare domande, ad esprimere i propri dubbi ed a rivelare le proprie paure. Naturalmente, da parte del medico non si tratta solo di assumere il giusto atteggiamento, ma anche di sintonizzarsi su quelli che sono i segnali non verbali che regolano l’interazione.

Esempio: chi vuole prendere la parola, inspira, dischiude le labbra, solleva una mano o l’intero avambraccio e lo tiene in sospeso fino a quando non gli viene concesso di parlare; l’intenzione che sottende questi segnali è ulteriormente rimarcata quando il paziente porta il busto in avanti, solleva la testa e cerca con gli occhi lo sguardo del medico.

Assumere un atteggiamento amichevole, gentile, parlare al livello culturale del paziente e chiarire le informazioni date sono altri aspetti che fanno sentire il paziente a proprio agio. Sempre sotto il profilo del dialogo, è buona norma lasciare che il paziente possa esternare i propri commenti sulla situazione prima di terminare l’incontro. Inoltre, la visita si dovrebbe concludere con una definizione di obiettivi (esami, abitudini da assumere o vizi da perdere).

Anche sostenere le iniziative del paziente, approvarlo e dimostrargli fiducia e stima ha un effetto positivo sul suo umore e sul suo atteggiamento verso la malattia. Quando si parla di malattie, malanni o di altri problemi fisici, la tensione può raggiungere livelli notevoli, così se il medico fa una battuta o sdrammatizza il problema, il paziente può sentirsi risollevato e impegnarsi con più energia a seguire le sue indicazioni.

Estendere il discorso alla vita del paziente, chiedergli delle sue emozioni, accertarsi su come vanno i suoi rapporti personali e le cose in generale è sicuramente uno strumento per mettere a suo agio l’interlocutore quando l’incontro è all’esordio o quando si sta per concludere.. Inoltre dedicare un po’ di tempo all’educazione alla salute, condividere osservazioni e conclusioni su esami e accertamenti con il paziente e discutere sugli effetti del trattamento si mostra piuttosto efficace. Una lamentela comune fra i pazienti è che il medico dedichi loro poco tempo: si sentono perciò trascurati ed incompresi. Così, compatibilmente con i propri impegni e con il numero di visite, non è una cattiva idea prolungare l’incontro di alcuni minuti; tanto per far sentire all’assistito che lo si considera anche come persona.

Fin qui, abbiamo elencato quello che sarebbe l’atteggiamento ideale da assumere nel corso di una visita.

Diamo ora un’occhiata ai comportamenti che proprio indispongono o rendono deluso chi si rivolge ad uno specialista. Gli atteggiamenti che maggiormente demotivano o stizziscono il paziente vanno da un’accoglienza fredda, al mostrarsi saccenti e autoritari, all’assumere una condotta eccessivamente formale. Contrastare in modo aperto e perentorio affermazioni del paziente o non prestarvi attenzione sono altri comportamenti che creano malcontento. Un atteggiamento che irrita parecchio il paziente è squalificarlo come interlocutore; questo accade ad esempio quando il medico usa una terminologia troppo tecnica e specialistica, lo interrompe spesso e non risponde alle sue domande dirette. Anche la mancanza di tatto da parte del dottore è vissuta in modo molto negativo: mostrarsi critici, scettici o colpevolizzanti sull’esperienza del paziente o fargli domande molto personali, specie se in modo brutale, o anche interrogarlo su questioni non legate al motivo della visita danno, infatti, parecchio fastidio al paziente. Talvolta una visita comporta un esame tattile: non dire niente o borbottare commenti e opinioni durante la palpazione come parlando fra sé e sé è particolarmente umiliante e frustrante per l’assistito.

Un medico dovrebbe cercare di creare un clima tranquillo e sereno durante lo svolgimento della visita: così se mostra ansia, irritazione, nervosismo o tratta il paziente come uno scolaretto, ripetendogli in modo ripetitivo e con fare “pedagogico” delle raccomandazioni provoca in quest’ultimo del risentimento.

Sotto il profilo della comunicazione non verbale, un professionista sanitario viene giudicato in modo più favorevole quando annuisce spesso, esibisce una mimica facciale cordiale, ma soprattutto espressiva e dà altri cenni (con le palpebre o con il sollevamento delle sopracciglia) di attenzione. Il paziente sente il medico più vicino e solidale quando quest’ultimo sta spesso inclinato verso di lui e mantiene un orientamento nella sua direzione; non tiene braccia o gambe incrociate e rispecchia le sue posture. Certi atteggiamenti dello sguardo piuttosto frequenti nei medici possono risultare piuttosto fastidiosi per gli assistiti: ad esempio, quando lo specialista fissa il paziente con insistenza, senza alcun calore nello sguardo o quando lo degna di uno sguardo appena dopo aver esaminato la cartella clinica. Il tono di voce dovrebbe essere calmo, né troppo alto, né troppo basso. Nelle comuni relazioni interpersonali si fa conoscenza con l’altro con una stretta di mano: difficilmente questo avviene tra medico e paziente: se quest’ultimo solleva la mano, la sua intenzione può essere ignorata o la stretta può essere data in modo debole; un atteggiamento del genere, comunica distacco e superiorità. Altri comportamenti che infastidiscono il paziente sono ancora: orientare il corpo in direzioni diverse da quella della persona venuta a consulto, tenere la schiena costantemente appoggiata sullo schienale, incrociare le braccia o, durante la palpazione, non rispettare la sua intimità e insistere in modo eccessivo. Comprendere meglio la comunicazione non verbale da parte del medico gli consentirebbe di accorgersi quando il paziente esita ad aprirsi, ha paura o preferisce nascondere qualcosa.

Facciamo qualche esempio.

Poniamo che un uomo abbia dei segni sulla pelle e quando il medico gli chieda se ha avuto rapporti a rischio, allontani il portapenne o deglutisca; dia cioè segni di menzogna, ma neghi a parole. Se il medico conoscesse il linguaggio del corpo, potrebbe interpretare anche questi segni e fare una diagnosi più mirata e corretta. Se il paziente, solleva le sopracciglia e le unisce al centro parlando del motivo per cui si è rivolto allo specialista vuol dire che è in ansia; questo non significa però che sia capace di raccontarlo; se il medico fosse in grado di riconoscere il segnale, potrebbe cercare di assumere un atteggiamento più confidenziale, mettere a suo agio il paziente o rassicurarlo. Riconoscere la mimica facciale della sofferenza potrebbe poi essere utile nel momento in cui, per paura di scoprire qualcosa di brutto, il paziente dovesse negare di provare un dolore.

La comunicazione efficace tra il medico, il paziente e la sua famiglia deve essere considerata come una funzione clinica fondamentale da non trascurare. Instaurando un processo di comunicazione interpersonale con il paziente, il medico può non solo ottenere delle utili informazioni per indirizzare il percorso diagnostico e terapeutico, ma anche suscitare un buon livello di soddisfazione e di consenso che finisce per incidere positivamente sui risultati clinici complessivi.

Il medico dovrebbe avere un atteggiamento di APERTURA CON STILE NON DIRETTIVO nei confronti del paziente facendo sentire quest’ultimo prima di tutto un essere umano con la sua individualità ed umanità attraverso:

·        ASCOLTO ATTIVO

·        EMPATIA, OTTENUTA CON UNA CORRETTA GESTIONE DELLE EMOZIONI ( Esplicitare, Comprendere, Rispettare, Aiutare)

Esempi:

·        Pz esprime solitudine per la morte di un amico.

·        M: Così si è sentito parecchio solo (esplicitare).

·        Dividevamo tante cose … esagero?

·        M: La capisco, ci addoloriamo per tutte le perdite, è comprensibile (Comprendere).

·        Pz: Ho pensato. È stupido, lo so … che potrei avere anch’io un tumore …

·        M: E’ stato un periodo difficile per lei, è normale (Rispettare.)

·        Pz: Lo è stato davvero. (pausa) Grazie. Ora mi sento meglio …

·        M: Qualche volta serve proprio parlarne (Aiutare.)

L’EMPATIA MIGLIORA LA COMUNICAZIONE:

Esempio 1

         M: I suoi genitori sono viventi?

         Pz: No, la mamma è morta nel 1978.

         M: Per quale motivo?

         Pz: Penso fosse cancro, dottore.

         M: In quale parte del corpo?

         Pz: Non sono sicura.

         M: Aveva avuto interventi chirurgici? Era stata ricoverata in ospedale?

Esempio 2 M: I suoi genitori sono viventi?

         Pz: No, la mamma è morta nel 1978.

         M: (pausa) Lei aveva solo 12 anni allora …

         Pz: In realtà ero ancora una bambina. Ho dovuto aiutare mio padre ad occuparsi di lei quando è tornata dall’ospedale. Aveva un cancro. Attualmente, spesso penso a lei. Spero non accada lo stesso anche a me. Per questo vorrei che mi visitasse oggi …

Questi modelli comunicativi si realizzano assai raramente in un rapporto medico paziente, infatti, a tal proposito possono essere interessanti i risultati di uno studio realizzato dal Servizio sanitario canadese, riguardante il rapporto medico-paziente con particolare riferimento all’Assistenza Sanitaria primaria. Nel 54 per cento dei casi il medico non prendeva in considerazione le proteste dei propri pazienti e nel 45 per cento dei casi non ascoltava con attenzione le loro preoccupazioni. Nel percorso di comunicazione tra medico e paziente vi possono essere degli atteggiamenti da seguire, altri da evitare, nell’ottica di avvicinarsi sempre di più alle esigenze dell’utente. Il medico deve sforzarsi di capire il disagio dei pazienti, cercando di non trascurare i loro sentimenti e le speranze di salute, coltivando la capacità di miglioramento della relazione in un’ottica di “gentilezza attiva” e di empatia con i propri assistiti.

Dieci semplici regole per migliorare la comunicazione medico-paziente

     
  1. Non esprimere mai troppi concetti      contemporaneamente.
  2.  
  3. Quando si parla rivolgersi sempre      direttamente al paziente, evitando di fare gesti che possano distrarlo.
  4.  
  5. Quando si devono trasmettere informazioni      importanti, cercare di coinvolgere anche i familiari se sono presenti.
  6.  
  7. Ripetere sempre l’informazione più volte,      in modo che sia più comprensibile, specie se chi ascolta possiede un basso      grado d’istruzione.
  8.  
  9. Pianificare il discorso in modo che i punti      più importanti dell’informazione vengano dati sia all’inizio che alla fine      di esso.
  10.  
  11. Per essere più chiari, ricorrere ad esempi      che possano risultare facilmente comprensibili per il paziente, magari      riferendosi a vicende cliniche legate a lui o ai suoi familiari.
  12.  
  13. Per mettere maggiormente a suo agio il      paziente e favorire una maggiore comprensione del messaggio informativo,      si può fare ricorso all’uso di qualche termine più colloquiale, popolare      talvolta anche dialettale.
  14.  
  15. Quando si forniscono indicazioni sui      dosaggi e sui tipi di farmaci che il paziente deve assumere, portare      sempre esempi pratici: chiarire il tipo di pillole (capsule, compresse,      colore, forma, come si possono dividere, ecc.); nell’uso di sciroppo      specificare bene se bisogna utilizzare un cucchiaio da tavola o un      cucchiaino; indicare sempre le tacche del misurino.
  16.  
  17. Accertarsi che il paziente abbia capito,      rendendolo partecipe delle decisioni e facendogli ripetere il dosaggio che      deve assumere.
  18.  
  19. Esprimere sempre ottimismo, incoraggiando      il paziente in difficoltà: un eccesso di pessimismo può porlo in una      posizione di scetticismo, con possibile calo di fiducia e rifiuto della      terapia.

Ostacoli alla comunicazione:

· IL PROBLEMA DEL TEMPO

· IL PROBLEMA DEL DOLORE, DELLA SOFFERENZA E DELLA MORTE

· IL PROBLEMA DELLA SESSUALITA’

· IL PROBLEMA DELLE ANSIE DEL MEDICO: ansia di incapacità e fallimento

· IL PROBLEMA DELL’ ERRORE

 


L’Empatia

“E’ il più terrificante dei sentimenti rendersi conto che il medico non sa vedere la tua realtà, che non sa capire quello che senti, e che sta andando avanti semplicemente di testa sua. Cominciavo a sentire di essere invisibile e forse di non esserci nemmeno”.

Brano tratto dal libro “L’io diviso” di Laing

Parole che conducono a interrogarsi su quanto il comprendere l’altro, non in senso esclusivamente emotivo o esclusivamente razionale, sia un fondamento importante delle relazioni umane. Sarebbe però troppo riduttivo, pur nella sua accezione generale, associare questa “comprensione dell’altro” al termine Empatia.

Empatia è infatti un costrutto che va più in profondità, che implica quel qualcosa in più di difficile attribuzione.

In greco il termine “empatheia” (passione) stava a definire l’ingresso nella sofferenza di un’altra persona fino a identificarsi con lei.

Gli autori romantici tedeschi del XIX secolo (Herder e Novalis) coniarono il termine “einfuhlung” ( letteralmente immedesimazione ) per descrivere l’esperienza di fusione dell’anima con la natura, concepita quest’ultima quale flusso vitale spirituale. Non emergevano però tentativi per una sistematizzazione teorica del concetto di empatia. L’empatia peraltro non è mai stato oggetto di interesse da parte della scienza medica.

A occuparsi maggiormente di empatia furono dapprima i filosofi e successivamente i cultori della psicologia umana.

Il filosofo Theodor Lipps ebbe il merito di portare il discorso dall’estetica alla comunicazione intersoggettiva identificando l’empatia quale processo innato di imitazione e proiezione.

E’ però nell’ambito della fenomenologia che l’empatia diviene vero oggetto di studio. Fu la filosofa Edith Stein ad approfondire tale ricerca ponendosi in antitesi al dualismo cartesiano. La ricerca filosofica contribuì alla sua conversione dal credo ebraico al cattolicesimo fino alla scelta di entrare nell’ordine delle Carmelitane col nome di Teresa Benedetta della Croce, canonizzata nel 1998 da Papa Giovanni Paolo II. La Stein per le sue origini ebraiche fu internata dai nazisti e morì ad Auschwitz nel1942. La Stein fu allieva di Husserl e ottenne il dottorato in filosofia all’Università di Friburgo nel 1916 discutendo la tesi “Sul problema dell’empatia”. Secondo la Stein per empatia era da intendersi l’atto mediante il quale la persona si costituisce attraverso l’esperienza dell’alterità, cioè del rapporto con l’altro. Per usare le sue parole “ l’empatia è l’atto paradossale attraverso cui la realtà di “altro”, di ciò che non siamo, non abbiamo ancora vissuto o che non vivremo mai e che ci sposta altrove, nell’ignoto, diventa elemento dell’esperienza più intima cioè quella del sentire insieme che produce ampliamento ed espansione verso ciò che è oltre, imprevisto”. Anche nel momento della massima immedesimazione l’Io non scompare in un Io fusionale o subordinato ma mantiene una sua diversità. E’ questa diversità che permette l’empatia perché un io fusionale senza il successivo distanziamento non consentirebbe l’esperienza dell’altro.

L’empatia affettivo - emotiva di Stein è caratterizzata dalla seguente tripletta:

1.      Coglimento del vissuto altrui

2.      Immedesimazione in esso

3.      Oggettivazione dello stesso

A questo concetto si contrappone quello di empatia cognitiva, introdotto da Mead rappresentata attraverso un processo quasi inverso:

1.      Oggettivazione cognitiva del comportamento altrui

2.      Immedesimazione proiettiva del vissuto altri e possibile categorizzazione

3.      Coglimento del vissuto dell’altro nella sua autenticità

Con le sfumature emozionali specifiche dell’altro che differiscono sia da quelle specificamente sperimentate dal soggetto che da quelle categorizzate.

Mead spiega l’empatia cognitiva come una capacità di comunicazione di idee piuttosto che un sentire lo stato emozionale dell’altro.

Pertanto mentre l’empatia affettiva conduce all’accettazione dell’altro e della realtà della sua presenza nel mondo, l’empatia cognitiva costruisce un significato che non può essere discusso e negoziato.

Attraverso l’empatia cognitiva noi costruiamo una personale sapienza sui tipi umani; l’empatia emotivo - affettiva non è classificatoria, perché spesso ci dischiude a percezioni del vissuto altrui a noi ignote, o se note, a qualche particolare significato, o sfumatura, del cui sapore non avevamo precedentemente conoscenza.

Inoltre consente di percepire l’altro come persona che vive quella particolare emozione e di dar corpo, attraverso l’emozione condivisa, al processo di co-costruzione di un sentimento, anch’esso empatizzabile dalle persone in relazione e da terzi. Il processo che conduce dalle emozioni percepite alla condivisione e alla co-costruzione di sentimenti, diventa cognitivo in una successiva fase del suo sviluppo. Quando la narrazione si trasforma in testimonianza essa si apre verso l’empatia cognitiva. Con un processo del tutto inverso l’empatia cognitiva conduce alla comprensione del vissuto altrui partendo dalla condivisione di simboli su cui è possibile investigare intellettivamente .

L’empatia cognitiva è un’intuizione categoriale, o un ragionamento sull’altro, possibile in ragione della comune appartenenza alla specie. A partire dall’empatia cognitiva si può giungere alla percezione emozionale e affettiva, ed alla costruzione di legami sociali mediante sentimenti condivisi, se le relazioni faccia a faccia, aprono alla percezione dell’identità dell’altro come persona e alla manifestazione autentica di vissuti “qui ed ora”.

La cognizione può favorire l’empatia emozionale e affettiva , ma solo se liberata da eccessi di proiezione e di immedesimazione, precategorizzati nel soggetto interpretante che rischiano di produrre effetti distorcenti sulla comprensione.

Pertanto non è detto che tale modello di comprensione del vissuto altrui si offra come forma indubitabile di sapere umanizzante. Può infatti nascondere proiezioni poiché l’empatia cognitiva si basa sugli schemi mentali di chi interpreta.

Edith Stein, inoltre esprime anche il concetto di “NOI SOCIALE”.

L’empatia,infatti, è ponte tra vita personale e vita altrui, tra vita personale e vita sociale. È la genesi del noi sociale, luogo di cooperazione e condivisione, vera comunità umana. Il momento empatico diviene il luogo privilegiato della ricerca della verità, è un’esperienza interiore che porta a oltrepassare la visione del nostro mondo. Si entra nel mondo dello spirito. Per la Stein “il mondo dello spirito non è meno reale né meno conoscibile del mondo naturale”.

“Poiché l’uomo appartiene a tutti e due i regni, la storia dell’umanità li deve prendere ambedue in considerazione”.

E’ dunque essenziale entrare nell’orizzonte dello spirito perché dare un senso è un’operazione terapeutica, come suggerisce Victor Frankl: “Raccontai ai miei compagni che la vita umana ha sempre, in tutte le circostanze, un significato, e che questo infinito senso dell'essere comprende anche sofferenze, morte, miseria e malattie mortali. Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall'alto, con sguardo d'incoraggiamento, ciascuno di noi, e specialmente coloro che vivevano le loro ultime ore; un amico o una donna, un vivo o un morto, oppure Dio. E questo qualcuno s'attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci ma con orgoglio!”. Frankl, internato in un lager nazista, osservò che tra i suoi compagni di sventura, coloro che credevano in qualcosa e che continuavano a dare un “senso” alla propria vita, erano più resistenti alle malattie e deprivazioni.

Freud, al contrario, nel suo testo “psicologia delle masse e analisi dell’io” parla di einfuhlung, immedesimazione, attribuendole esclusivamente una funzione interpretativa negandole nel contempo una valenza terapeutica.

Fu Kohut teorico della psicologia del sé definì “l’immersione empatica” un introspezione vicariante una sorta di prestito a un’altra persona della propria capacità introspettiva. La funzione empatica è ciò che ci consente di osservare l’interiorità nostra e delle altre persone. Il bisogno di empatia secondo Kohut perdura tutta la vita. E’ un bisogno fondamentale, un nutrimento, generato dalla paura di autoesclusione dal mondo. L’empatia secondo l’autore è dunque essenziale per mantenere la salute mentale e la presenza di fenomeni empatici tra madre e figlio è fondamentale per lo sviluppo di un attaccamento sicuro nella prima infanzia.

L’ambiente empatico è quindi, secondo Kohut, condizione necessaria per conservare la coesione del sé e in ambito clinico è già di per sé atto terapeutico in quanto rafforzante la coesione del sé e l’autostima.

Carl Rogers diede all’empatia un ruolo centrale nel suo impianto teorico. Nella sua definizione riemerge il concetto di immedesimazione non fusionale espresso anni prima da Edith Stein :

“ … lo stato di empatia, dell’essere empatico, è il recepire lo schema di riferimento interiore di un altro con accuratezza e con le componenti emozionali e di significato ad esso pertinenti, come se una sola fosse la persona - ma senza mai perdere di vista questa condizione del come se. Significa perciò sentire la ferita o il piacere di un altro come lui lo sente, e di percepirne le cause come lui le percepisce, ma senza mai dimenticarsi che è come se io fossi ferito o provassi piacere e così via. Se questa qualità di come se manca, allora lo stato è quello dell’identificazione”.

Per Rogers l’empatia è il fattore più importante nell’ingenerare un cambiamento nel paziente. L’empatia nel counseling prepara, per usare le sue parole, il successo futuro. La competenza empatica non è un’operazione di tipo cognitivo e quindi non può essere acquisita mediante un apprendimento teorico ma attraverso l’esperienza formativa, professionale e di vita quotidiana. Anche Karl Jaspers operò una distinzione tra comprensione razionale e comprensione empatica. Essere empatici secondo Jaspers non è correlabile alle proprie capacità intellettuali o a titoli accademici. L’esperto dunque non è necessariamente una persona empatica. Da questo breve, parziale e sintetico excursus storico possiamo trarre alcune riflessioni.

La prima, ormai indiscutibile, è che la medicina attuale, centrata sulla tecnica e sull’economia, è una medicina muta, priva di empatia. Una medicina che ignora la soggettività e che in funzione della tecnologia oggettivizza le persone nell’illusione che l’esproprio della soggettività sia un vantaggio terapeutico ed economico.

Purtroppo la medicina attuale è centrata sul sintomo e la stessa attività del medico è spesso regolata da esigenze di tipo manageriali, pertanto nascono linee guida, percorsi diagnostici-strumentali, regole prescrittive e così via. Di per sé questi aspetti non vanno considerati negativi in senso assoluto, ma diventano tali quando la soggettività del malato viene sistematicamente offuscata.

La seconda riflessione consegue alla constatazione che l’empatia non è un concetto per i soli addetti ai lavori, medici, filosofi o psicologi, ma riguarda l’umanità intera. Quel noi sociale di Edit Stein e quel nutrimento psicologico di Heinz Kohut senza i quali si va verso la distruttività e disumanizzazione. Empatia dunque come dispositivo etico fondato però su valori di rispetto e dignità personale, in uno spirito di ciò che Karl Jaspers chiamava corresponsabilità.

Certo restano delle problematiche aperte relative ai valori dei vari contesti socio-culturali in una società ormai globalizzata, all’aiuto per le persone fragili, coartate o con deficit mentali, alla ricerca scientifica che deve investire e operare scelte coraggiose in funzione della soggettività. Problematiche che devono trovare una risposta soprattutto nella classe Medica storicamente e istituzionalmente dedicata alla cura. Un’ultima riflessione è relativa alla genesi stessa dell’empatia che è certamente qualcosa di complesso che richiama aspetti psicologici, spirituali e biologici. E’ il tempo opportuno, kairos, nel quale si incontrano medico e paziente conducendoci alla scoperta dell’irripetibilità della persona; è il kairos che ci viene offerto per arricchire la nostra esperienza e umanità. E’ quel qualcosa di misterioso che unisce gli esseri umani tra loro, nella buona e nella cattiva sorte. E prendendo in prestito una frase di Einstein:

La cosa più bella che possiamo sperimentare è il mistero; è la fonte di ogni vera arte e di ogni vera scienza. Essere che non conosce questa emozione, che è incapace di fermarsi per lo stupore e restare avvolto dal timore reverenziale, è come un morto”.

Chi val dal medico in realtà non espone solo i propri sintomi. Esprime la propria soggettività, la propria sofferenza e la propria domanda di senso e significato. La realtà della persona è l’insieme di corpo, mente e spirito (spirito in teso quale domanda di significato). Quando ci si ammala non si è colpiti solo nel corpo ma anche le altre componenti sono coinvolte nel processo patologico. Che lo spirito attivi determinate dinamiche è un dato oggettivo: molti malati davanti a una diagnosi di gravità si pongono la domanda: “ perché proprio a me?”

Non è altro che una domanda di significato, un’esternare la propria soggettività. Ponendo la persona al centro dell’agire medico la malattia può rivelarsi non solo un handicap o una disgrazia, ma anche una risorsa, in quanto apre alla domanda di significato e consente la messa in moto di una capacità reattiva con i suoi correlati psiconeuroendocrini ed immunologici. L’ideogramma cinese Wej.ji è composto da due parole, pericolo ed opportunità:

ideogramma di crisi

può sicuramente essere applicata a questo concetto dal momento che nei momenti di crisi, anche durante quelli più duri, si nascondono due grandi eventi, il pericolo e l’opportunità. Sta poi nell’abilità delle persone saper raccogliere le opportunità schivando i pericoli. E’ proprio durante i periodi di crisi che avviene una selezione naturale, ovvero solo quelle persone che sono in grado di saper leggere gli eventi e prendere decisioni, sapranno superare i pericoli, ma sopratutto saranno pronte a cavalcare l’onda della ripresa quando questa arriverà. Allora ecco che sono sempre le persone che possono decidere le sorti di se stesse

Così, a esempio, i sintomi delle malattie, non sono solo un richiamo del passato, da sopprimere, da abbattere come un ostacolo o una ferita da cicatrizzare, ma una memoria da ritrovare, un consiglio a mettersi a nudo davanti ai propri occhi e anche un invito rivolto al futuro ed a porci la domanda: "Cosa mi sta chiedendo?  A cosa m’invita? Verso dove vuol portare la mia riflessione?"

.La malattia può essere vista allora come opportunità di cambiamento, basti pensare, quante volte viviamo in balia degli eventi dalla vita, concentrandoci solo sul lavoro senza pensare agli affetti , alla nostra interiorità, non vivendo ogni momento come fosse l’ultimo. La malattia , con la paura della morte, può destabilizzare il nostro modo di pensare, farci cambiare le nostre priorità, mostrandoci quanto siamo attaccati alla vita e quanto conta anche solo un attimo di sole o un sorriso.

È dunque essenziale andare al di là del corporeo ed entrare nell’orizzonte dello spirito.

La realtà non è ciò che ci accade  ma ciò che noi facciamo con quel che ci accade.

" Aldous Huxley.

"Dov’è il pericolo c’è anche la salvezza.

" Hölderlin

 

L’empatia allora viene ad assumere un ruolo centrale nel rapporto medico paziente: diviene il veicolo di ciò che definiamo alleanza terapeutica e base della fiducia reciproca. I nostri pazienti non chiedono solo professionalità ma quella dose di umanità che fa si che si sentano considerati e non oggetti di studio e ricettori di farmaci ma persone con la propria dignità.

L’empatia attraverso un ascolto attivo, comprensivo, del medico permette una comprensione completa del paziente come individuo e ciò permette:

·        La condivisione emotiva

·        Il contenimento

·        La fiducia in se stessi e negli altri

che permette  al paziente di accettare la propria malattia e lo rende più disponibile ad accettare le cure proposte dal medico.

 

 


La medicina narrativa

“La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.

G. G. Marquez

“Il fatto è che il medico vede il male e il paziente sente un dolore: due cose diverse. Il dolore è un vissuto soggettivo che il paziente narra e non coincide con il male oggettivo che il medico cerca. Il dolore esce dai confini del corpo e pervade la vita, modificando la qualità delle relazioni, la forma degli affetti, il ritmo delle attività, la considerazione di sé. Uno è sano quando il corpo se lo dimentica. Se mi ammalo, non coincido più col mio corpo. Non dico «ho un corpo stanco», ma «sono stanco». E nel «sono» c'è una perfetta coincidenza tra io e corpo”

                                                                                                                         Vincenzo Masini

.

Nella vita di tutti i giorni utilizziamo la nostra capacità narrativa per raccontarci agli altri, per dire qualcosa di noi, del nostro passato ma anche delle nostre aspettative future. Allo stesso modo il paziente racconta al medico la propria “storia di malattia”, e questa è la descrizione più vera e completa del suo malessere.

Il movimento di medicina narrativa, fondato da Rita Charon, della Facoltà di Medicina della Columbia University , nasce negli USA dalla constatazione che, a fronte di tecnologie di diagnosi e analisi sempre più sofisticate, è passata in secondo piano la capacità da parte dei medici di ascoltare i pazienti leggendo nelle loro parole quegli elementi indispensabili, per il trattamento e la cura della malattia.

Oggi, se da un lato la medicina ha raggiunto straordinari traguardi di sviluppo tecnologico e progressi nella ricerca scientifica attraverso la medicina basata sulle evidenze (EBM), dall’altro ha messo in crisi il dialogo e il rapporto umano del medico nei confronti del paziente. Pertanto negli anni ottanta, nasceva in contrapposizione la NBM ( narrative based medicine: medicina narrativa), al fine di favorire l’empatia nella relazione d’aiuto, il contatto e la comprensione reciproca tra medico e paziente attraverso la narrazione della patologia del paziente al medico è considerandola al pari dei segni e dei sintomi clinici della malattia stessa.

L’applicazione di una medicina basata solo sulle prove scientifiche è unita all’erroneo principio secondo cui l’osservazione clinica è oggettiva e come tutte le procedure scientifiche dovrebbe essere sempre riproducibile nello stesso modo. L’EBM si basa sulla definizione diagnostica della malattia, su studi, casi e dati statistici e le percentuali di successo sui pazienti. E’come se i pazienti venissero omologati in base alle patologie. Al contrario, la medicina narrativa considera la soggettività della malattia e considera l’unicità del vissuto del paziente, in questo modo nessuno risulta uguale a un altro. La NBM non nasce come reazione e alternativa all’EBM ma come ampliamento di essa: non tutto ciò che è fonte di salute e benessere può essere valutato attraverso trial controllati.

La NBM, si riferisce non solo al vissuto del paziente ma anche ai vissuti del medico ed alla loro relazione. Il nucleo centrale della medicina narrativa è il processo di ascolto del paziente mediante una tecnica di conversazione molto raffinata che conduce il medico a capire, mediante l’ascolto delle proprie emozioni e di quelle del paziente, il significato della sua pratica clinica.

La medicina narrativa stimola tre processi:

·      l’anamnesi esistenziale e relazionale del vissuto del paziente (non solo la malattia ma anche il malessere),

·      la co-costruzione tra medico e paziente del significato del vissuto di malattia, e

·      l’apertura progressiva della biomedicina ai contributi delle medicine complementari, naturali e del quotidiano.

Il medico-counselor, date le sue competenze, umane e tecniche, riuscirà maggiormente ad entrare nell’interiorità del paziente.

Ma che cos’è la medicina narrativa? È un’innovativa tecnica di comunicazione medica che pone attenzione alle storie di malattia per comprendere in modo più approfondito i pazienti e le loro patologie, collocandoli nel loro specifico contesto. La narrazione, oltre che restituire ai pazienti la centralità, offre ai medici la possibilità di avere una visione più completa e approfondita della malattia. Il significato costruito da questa relazione porta ad investigazioni anamnestiche più profonde attraverso l’analisi dei vissuti del paziente.

La narrazione ha un ruolo terapeutico, migliora lo stato d’animo del paziente e lo aiuta ad accettare la diagnosi e le cure. La narrazione getta ponti tra la medicina intesa come processo biologico e la malattia in quanto esperienza vissuta, crea un ponte tra due mondi: quello del medico e quello del paziente, apparentemente così lontani tra loro.

Caratteristiche della narrazione:

         successione temporale degli eventi;

         presuppone un narratore e un ascoltatore;

         influenza dello stato d’animo (e di salute) sulla narrazione.

Saper analizzare i momenti della narrazione aiuta a capire come e in che modo il paziente è malato e permette di attuare un approccio olistico. Le narrazioni aiutano il medico nelle varie fasi del rapporto con il paziente.

Nella diagnosi:

- le narrazioni sono la forma fenomenica in cui i pazienti sperimentano la malattia;

- incoraggiano la comprensione reciproca;

- forniscono informazioni utili (altrimenti non conoscibili).

Nell’educazione di pazienti e operatori sanitari:

- sono utili perché fondate sulle esperienze;

- incoraggiano la riflessione;

- rimangono impresse nella memoria.

Praticare la medicina con competenze narrative, aiuta il medico a interpretare accuratamente e velocemente ciò che il paziente tenta di dire. L’esperienza umana del dolore non può essere descritta in modo esaustivo attraverso il rigore scientifico dell’anamnesi clinica, ma può essere espressa anche sotto forma di colori, figure e immagini nel linguaggio cifrato della rappresentazione artistica.

Anche la narrazione del sanitario è fondamentale in questo processo perché migliora il rapporto medico-paziente incoraggiando l’introspezione, la riflessione esistenziale e l’umanità del medico.

La Medicina Narrativa è un approccio che ha anche lo scopo di risvegliare nei malati cronici risorse per riuscire a trovare quelle energie mentali ed emotive che consentono di avviarli a una nuova fase della loro biografia e della loro vita, la persona deve arrivare a comprendere che quanto sta facendo è utile per il raggiungimento di un nuovo stato di benessere personale. Questo approccio è indispensabile soprattutto quando la terapia tradizionale non promette una guarigione perché aiuta a convivere con la malattia, aiuta la persona a comprendere di più il suo stato, la aiuta a ristabilire un’alleanza tra la medicina e l’educazione, tra il supporto farmacologico e la disponibilità a prendere coscienza della propria condizione. Essa non ha la presunzione di guarire il “male di vivere”, non è un toccasana, ma neppure la terapia medica in corso di malattie croniche è in grado di guarire il male.

La scrittura della propria vita svolge una funzione di auto aiuto e monitoraggio con funzioni auto lenitive, terapeutiche e catartiche, essa facilita la sintesi di sostanze immunitarie ed antidepressive, anche se in forma blanda, e potenti risorse sul piano dell’autostima, del senso, della conquista delle parole per dirsi e spiegarsi e della ricerca di un’energia mentale necessaria a rappresentarsi in altre condizioni e occasioni (D. Demetrio, Raccontarsi, l’Autobiografia come cura di sé).

Il conforto recato dalla narrazione è pari ad una liberazione: il racconto genera, infatti, quel distacco necessario all’elaborazione e all’accettazione dei vissuti dolorosi. La capacità curativa del racconto autobiografico è ancora più significativa quando la narrazione si trasforma in scrittura. La scrittura, infatti, ha la capacità di sviluppare e stimolare a un livello più profondo il ripiegamento su se stessi. Il bisogno di raccontarsi nasce spesso dalla sofferenza che viene rielaborata attraverso la parola o attraverso la scrittura diventando così uno strumento di cura.

Quando il medico diventa paziente. La testimonianza di tre medici.

L’effetto dirompente della malattia, specialmente se grave, getta il paziente in uno stato emotivo di ansia e sconforto. Questa debolezza, fisica e psicologica, inserita nell’ambiente ospedaliero si amplifica, spesso anche a causa di approcci a volte un po’ distaccati e ostili di medici e infermieri.

Tre grandi medici (Sandro Bartoccioni, Gianni Bonadonna, Francesco Sartori) ammalatisi gravemente, hanno potuto sperimentare l’essere dall’altra parte, l’essere pazienti. e da quel momento sono costretti a guardare la vita con gli occhi del paziente anziché del medico. Cambiando tutte le loro prospettive, i punti di vista sull’esistenza, la gerarchia dei valori, la stessa valutazione critica del mondo sanitario cui appartengono da anni. Ne viene fuori una testimonianza ricca di interesse e di umanità, spesso toccante ma disseminata qua e là di quei risvolti ironici che non di rado le grandi difficoltà riescono a far emergere. La loro testimonianza è anche una denuncia sia verso il Sistema Sanitario, sempre più preso dalla burocrazia, sia verso i medici, spesso lontani dalle persone che hanno in cura.

A questo riguardo proprio il professor Bartoccioni ha posto in rilievo alcuni punti di grande sofferenza in chi si trova catapultato e subito dopo impigliato nelle spire della ricerca del «medico giusto», della competenza adatta, con il rischio di doversi sobbarcare inutili peregrinazioni alla ricerca di un aiuto che il più delle volte era disponibile a portata di mano. Rimangono impresse nella memoria, nel corso delle interviste raccolte, alcune stilettate polemiche rivolte alla superficiale disinvoltura con cui certi medici vaticinano con grande sicurezza prognosi infauste («Ti dicono: “ha sei mesi di vita”, mai cinque o sette, sono affezionati ai sei mesi. Eppure si sa così poco del corpo umano e delle sue reazioni, come si possono fare certe previsioni con tanta leggerezza?»). Efficace anche l’immagine a cui il professor Bartoccioni ha voluto affidare la spiegazione di come la malattia, insieme al dolore e allo smarrimento, possa portare anche un ricco contributo di conoscenza: «La malattia mi ha costretto a vivere un altro film, a immergermi in una sorta di seconda vita, di nuovi contatti umani, ad accorgermi della bellezza e importanza di tanti aspetti quotidiani che sottovalutiamo».

 


Il counseling di accompagnamento alla morte

“Allora chiesero al maestro: ora vogliamo chiederti della morte. E lui disse: voi vorreste conoscere il segreto della morte, ma come potete scoprirlo se non cercandolo nel cuore della vita? Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al giorno, non può svelarci il mistero della luce. Se allora volete davvero conoscere lo spirito della morte spalancate il vostro cuore al corpo della vita, poiché vita e morte sono una cosa sola, come una cosa sola sono il fiume e il mare”.”

Un po’ tutti dovremmo prendere l’abitudine di pensare ogni tanto alla morte per non avere paura della vita”.

Elisabeth Kubler Ross

Aggiungi vita ai tuoi giorni piuttosto che giorni alla tua vita.                

Rita Levi Montalcini

 

La morte è l’unica certezza della vita: una realtà che ci rincorre o meglio ci aspetta. La morte è nascosta dietro l’angolo, un angolo ignoto nel tempo e nello spazio ma sicuramente esistente. Ignorarla non serve ad esorcizzarla: è solo segno di immaturità. Pensarci per tempo può giovare ad accettarla con mestizia ma con responsabilità, piuttosto che con negazione e terrore.

Il timore della morte è presente in tutte le culture, ma molto di più nella nostra società odierna che nega la morte, la rimuove, la vive quasi con ripugnanza. La morte è un tabù: non se ne deve parlare.

In realtà chi ha raggiunto una identità completa, chi vive l’esistenza veramente in pieno, è pronto a prepararsi in pace all’ultimo dei tanti appuntamenti che hanno costellato e ritmato la vita.

Parlare della morte significa cercare di conoscerla, anche correggendone vari equivoci. Il primo di questi concerne la morte intesa come un momento: quello della “candela che si spegne”. In realtà si muore a poco a poco durante tutta la vita. Tolstoj diceva : si nasce e si vive solo per morire. Jung: se l’uomo nella prima metà della vita è animato da un istintivo “voler vivere” deve prepararsi, nella seconda metà a “voler morire” unico atteggiamento che gli può permettere di continuare a voler vivere.

La morte non può essere paragonata ad altre esperienze vissute perché il vissuto esistenziale è strutturalmente vitale. La morte è solo un momento biologico, di cui, in genere, non si è consapevoli:la coscienza vitale non conosce la morte. Il morire, invece, è un concetto oltre che un fatto. A livello di idea, precede di anni il sentimento terminale di stare morendo. L’uomo sa da sempre che morirà. Perciò l’uomo ha paura. Una paura che si può vincere solo con l’amore.

Per la corrente esistenzialista, l'esistenza autentica, implica che l'uomo assuma pienamente il proprio essere-per-la-morte, attraverso l''anticipazione' della morte, che non significa un "pensare alla morte", nel senso di tener presente che dovremo prima o poi morire, cercando di controllarne il come e il quando, ma nel considerare la nostra intera esistenza come costellata di pure possibilità. In altre parole, la morte possibilizza le possibilità, le fa apparire realmente tali; e con ciò, le fa cadere sotto il dominio dell'Esserci, il quale non si attacca a nessuna di esse in modo definitivo, ma le inserisce nel contesto sempre aperto del proprio progetto esistenziale. L'autenticità dell'esistenza si esprime attraverso l'assunzione pienamente consapevole del nostro costitutivo essere per- la-morte. Ciò comporta una 'demitizzazione' e una responsabilizzazione' delle possibilità esistenziali nelle quali siamo gettati.

La morte è "una parte costitutiva della vita piuttosto che la sua fine semplicemente, e solo l'integrazione del concetto della morte nel proprio sé rende possibile un'esistenza autentica e genuina. Negando la morte si paga con un'angoscia indefinita e con l'autoalienazione. Per capire completamente se stesso l'uomo deve affrontare la morte, deve essere consapevole della propria morte". La maturità interiore comporta la consapevolezza dei limiti, e la morte costituisce il limite umano fondamentale. "In un certo senso - dice Feifel -, la disponibilità a morire appare come una condizione necessaria di vita. Nessuna nostra azione è completamente libera finché siamo dominati dalla volontà irrefrenabile di vivere.

La vita non ci appartiene veramente finché non possiamo rinunciare ad essa.

Montaigne ha osservato molto acutamente: 'Solo l'uomo che non teme più la morte cessa di

essere uno schiavo”.

All'interno di questa accettazione della morte, l'individuo impara gestire in maniera più distaccata, serena, meno totalizzante le varie situazioni esistenziali, senza, per questo, sentirle meno 'sue':vivendole, anzi, con un profondo senso di responsabilità.

Altro equivoco è la morte intesa solo nei suoi aspetti negativi di “fine”. Eppure millenni di cultura sostengono il contrario, sostengono la libertà dopo la vita. I paradisi delle diverse religioni promettono ai miseri le cose che più sono mancate loro sulla terra eppure spesso nell’uomo c’è la volontà di vivere comunque e nonostante tutto.

Il ruolo della religione è piuttosto controverso nella paura della morte, in alcuni casi la religione ha apparentemente rimosso la paura della morte in altri l’ha causata ed incrementata. In particolare la nostra religione collega all’idea della morte quella del giudizio, cioè la responsabilità durante l’esistenza. La morte è il segno di un compimento, da un senso alla vita come opera che si compie.

La morte è un’esperienza unica ed irripetibile solo nel suo aspetto di separazione ultima e definitiva. Ma proprio in quanto separazione, è un’esperienza già nota, perché più volte nella vita ci separiamo da qualcuno o da qualcosa.

Il significato della morte può essere ricercato proprio nel significato che si dà alla vita secondo l’esistenzialismo di Viktor Frankl.

La logoterapia (da logos : significato) è stata ideata da Viktor Frankl come intervento per aiutare a ritrovare il senso della propria esistenza. Per la logoterapia il presupposto della salute mentale è la ricerca e la scoperta del senso personale della vita. L’obiezione cinica, tipica della cultura contemporanea, oppone alla speranza e alla fiducia la realtà sociale del crollo dei valori. La ricerca ossessiva della felicità personale può deformare l’originaria domanda di senso. Frankl ci ha insegnato che più si vuole raggiungere la propria felicità, più si ottiene l’effetto contrario, a causa della iperriflessione. La felicità intesa come appagamento, non come semplice e puro piacere, deriva da un atteggiamento di apertura nei confronti della vita, dalle risposte che diamo alle richieste dell’esistenza. La tensione verso il logos (significato, senso) comporta una soddisfazione noetica (da NOUS = spirito, coscienza) che va oltre il principio omeostatico del piacere freudiano e talvolta può essere in contrasto con esso. La “crisi esistenziale”,per Frankl, costituisce un’esperienza naturale, necessaria, ineliminabile, poiché appartiene alla nostra più intima struttura d’essere. Interrogarsi sul senso della vita, disperarsi di fronte all’assurdità apparente della propria situazione esistenziale è un fenomeno naturale della coscienza, del NOUS, che comporta coraggio e onestà intellettuali ; il guardare in faccia, la propria problematica esistenziale implica l’essere pronti ad osservare cose sgradevoli, che vorremmo rimuovere.

Secondo Frankl l’uomo va considerato nella sua integrità psico-fisica spirituale, orientato a trovare e a vivere il significato della propria vita. Ma la verità` e` che molte volte non riesce a percepire questo significato e quando viene confrontato con la triade tragica (la sofferenza, la colpa, la morte) il significato della vita (e della triade tragica) gli sfugge ancora di più o non lo percepisce (non riesce a vederlo) oppure non vuole o non può accettarlo (respinge il significato percepito).

La tesi centrale della logoterapia è che c'è sempre un significato della vita da realizzare e sta in potere dell'uomo ricercarlo e attuarlo. Tale significato è unico e relazionato ad ogni singola persona e ad ogni singola situazione. "Nel contesto della logoterapia, il significato non rappresenta qualcosa di astratto, ma qualcosa di assolutamente concreto: il concreto significato cioè di una situazione, con cui un'altrettanto concreta persona viene a confrontarsi" Questo significa l'unicità dei significati. Per Frankl non esiste un significato universale della vita, ma esistono significati unici di situazioni individuali. "Tuttavia fra queste situazioni vi sono anche di quelle che hanno qualcosa di comune e, conseguentemente, vi sono significati condivisi da esseri umani. Piuttosto che essere in relazione a situazioni uniche, tali significati hanno riferimento alla condizione umana". Ed ecco perché li chiama 'valori'

Tre sono le principali direzioni lungo le quali l'uomo può trovare un significato della vita. La prima consiste in ciò che egli fa, nell'opera che crea, e quindi nel lavoro. Frankl parla, in proposito, di 'valori di creazione'. La seconda è costituita da ciò che la persona sperimenta e vive, amando pertanto qualcosa o qualcuno: sono i 'valori di esperienza'. Ma ci si può anche trovare confrontati con una situazione, che ci sottrae le due possibilità su accennate per trovare un significato della vita, una situazione che non si può cambiare. Però, resta ancora la possibilità di trasformare il nostro atteggiamento verso di essa, ossia il nostro atteggiamento e noi stessi. Si tratta dei 'valori di atteggiamento'. Nessuna situazione della vita è realmente priva di significato. È il caso della tragica triade dell'esistenza umana, formata dal sofferenza, dalla colpa e dalla morte che possono essere sempre trasformati in una conquista, in un'autentica prestazione, patto che si assumano nei loro confronti un atteggiamento e un'impostazione giusti” (La sofferenza di una vita senza senso) : "Il dolore si può trasformare in prestazione, la colpa in elevazione, la transitorietà dell'esistenza umana in stimolo per un agire responsabile"

“Nessuna situazione della vita è realmente priva di significato”.La vita non è un semplice fatto, ma una sorta di compito da portare a termine nel migliore dei modi, secondo i tempi, i ritmi, le predisposizioni propri ad ognuno. Frankl, che ha vissuto l'esperienza dei lager nazisti e che proprio in questi luoghi ha perso la maggior parte delle persone a lui care (genitori e moglie compresi) è forse tra coloro le cui parole risultano maggiormente autorevoli e credibili.

La paura della morte si materializza nel comportamento dei pazienti affetti da mali incurabili. Secondo la Kubler –Ross il processo della morte presenta cinque fasi, a partire dal momento della diagnosi-sentenza fino a quello del trapasso. Queste fasi si succedono in un periodo variabile, da poche ore a vari anni.

La prima fase è caratterizzata da atteggiamenti di “negazione”, rifiuto, isolamento.

“ Una cosa così non può essere successa proprio a me, no io no, non può essere vero”. Dato che nel nostro inconscio siamo tutti immortali, è quasi inconcepibile riconoscere di dover affrontare la morte. Questo rifiuto iniziale ha qualcosa di positivo, quasi la funzione di paracolpi: permette al malato di ritrovare il coraggio e, con il tempo, mobilizza altre difese meno radicali.

Sarebbe preferibile parlare della morte e del morire al paziente e ai suoi familiari molto prima che la cosa stia avvenendo in modo che possano prepararsi per tempo.

In genere questa fase di risveglio dura poco. Presto il paziente si isola, rifiuta le convenzionali parole di conforto ed entra in uno stato di coscienza crepuscolare come un dormiveglia.

Al risveglio affiora la collera. Perché a me?! La mente corre ai conoscenti antipatici, corre ai risparmi diventati inutili, ai progetti divenuti irrealizzabili, a una vecchiaia che si pregustava serena e che viene bruscamente cancellata. La collera diventa uno stile di vita: non va bene più niente, si protesta per tutto o per nulla. Qui il problema è che pochi sono capaci di mettersi nei panni del malato e chiedersi la ragione del suo risentimento.

Aiutare il malato in questa fase non è difficile. Basta comprenderlo, rispettarlo, dedicandogli tempo ed attenzione, visitarlo con piacere più che per dovere.

La terza fase è quella del compromesso. Con Dio: “se ha deciso che devo morire e non risponde alle mie suppliche rabbiose, forse può commuoversi se gli chiedo qualcosa con più delicatezza”. Con i medici: “lasciatemi in vita ancora sei mesi, devo concludere un affare, sposare una figlia, finire un lavoro”. Con i familiari :“moglie mia stammi vicino almeno adesso, figlio mio non sposarti finchè sto male”. Con se stessi:”devo resistere ho ancora tanto da fare” e ciò da una forza che permette di strappare mesi e persino anni di vita. Lottare per la vita è umano e giusto:la vita è un bene e i beni vanno difesi a oltranza. I sentimenti di hopelessness (non c’è più speranza) e di helplessness ( nulla mi può più aiutare) vanno respinti finchè è possibile, anche perché micidiali nell’accellerare il crollo delle difese biologiche e quindi l’avvento alla morte.

Questa fase è di grande importanza. Può diventare la più lunga e felice. Così come può essere “saltata” dal paziente che si dichiari convinto di non avere più nulla da chiedere alla vita. Ciò non è possibile. Spetta a chi è affettivamente vicino al malato aiutarlo a recuperare un interesse, privilegiarlo, renderlo l’ultimo traguardo, il più significativo appunto perché l’ultimo. C’è il rischio che manchi il tempo materiale per raggiungere lo scopo, ma intanto la preparazione tiene in vita e da scopo alla vita.

Segue la depressione. Quando il malato incurabile ha più sintomi e dolori, diventa più magro e debole, certo non può essere disinvolto e sorridente. Ci sono due tipi di depressione una reattiva ed una preparatoria. Il passaggio dall’una all’altra è sfumato, ma bisogna capirlo perché ne derivano tipi diversi di comportamento e di aiuto. La prima riguarda la tristezza per ciò che si è già è perso. Pensiamo alla donna che sia stata mutilata di un seno o dell’utero. Le gioverà molto anche il più banale dei complimenti. La depressione diminuisce di regola quando la paziente si accorge che qualcuno si prende cura dei suoi problemi esistenziali.

Il secondo tipo di depressione considera le perdite che stanno per accadere, quali la perdita di tutti gli oggetti del proprio amore oltre a quella della propria stessa vita. Qui è inutile cercare di incoraggiare e rassicurare il malato, sarebbe controproducente dirgli di non essere triste. Permettendogli di esprimere il suo dolore, troverà alla fine più facile accettare, e sarà grato a coloro che sapranno stare con lui, durante questa fase depressiva, senza dirgli di non essere triste.

Nel dolore che precede la morte c’è bisogno di poche parole o addirittura di nessuna. La solitudine è preferita alle parole forzate di una speranza di guarigione che non avverrà. La presenza silenziosa delle persone più care è l’aiuto migliore per cominciare a pensare alle cose che verranno piuttosto che a quelle passate. Questa depressione è il miglior passaporto per morire in pace.

Infine c’è l’accettazione. Se il malato ha avuto il tempo sufficiente ed è aiutato a superare le fasi descritte, raggiunge uno stadio in cui è pronto ad accettare il suo destino. Non con gioia ma con serenità. È l’ora in cui ci si intende con sguardi e carezze, in cui il tenere la mano è un messaggio di significatività infinita. Non ci sono più sgomento e collera né depressione e lotta. Solo pace, bisogno di pace, desiderio di pace. È come se il dolore se ne fosse andato, la lotta è finita, ed è venuto il tempo per il riposo finale prima del lungo viaggio. Questo è anche il tempo in cui la famiglia ha bisogno di aiuto, comprensione ed appoggio , più del malato stesso.

Questo non vuol dire che il malato non teme la morte, temere la morte non è vigliaccheria: lo stesso Cristo bagnò il Getsemani di lacrime amare e di “sudore simile a sangue” quando senti l’approssimarsi della fine della sua missione terrena.

Un altro problema da affrontare riguarda il concetto di “ verità al paziente”.

Il problema di annunciare brutte notizie e la difficoltà di farlo in modo da causare il minimo dolore possibile è un problema angoscioso per molti medici che hanno estrema difficoltà ad annunciare ad un paziente una diagnosi drammatica con prognosi infausta. È il momento più delicato di quel dialogo, insieme parlato e muto, che si svolge tra medico e paziente: il momento in cui la medicina lascia il terreno della scienza per salire ai cieli dell’arte, e in cui il medico privilegia l’umanità alla tecnica.

Il campo è diviso da chi sostiene tesi diverse documentate da statistiche evidenti.

La verità ad ogni costo. È la tesi dei teologi: trasgredire l’obbligo morale di dire la verità costituisce una privazione dei diritti del paziente; è un furto, una violenza, un illecito. È anche la tesi dei giuristi: ogni uomo ha diritto alla verità per quello che lo concerne; da questo diritto consegue l’obbligo per il medico di rivelargliela. A un malato in imminente e sicuro pericolo di vita, la verità va detta: con soavità, circospezione, dolcezza, con tutte le riserve possibili, ma va detta (Torrioli). Magari senza chiudere tutte le porte della speranza. Il medico non può accollarsi la responsabilità che il malato non prenda coscienza della realtà e non si prepari alla morte, intesa non come fine della vita ma come l’ultimo atto della vita terrena.

Il medico ha il dovere di vegliare sulla salute dell’uomo, che non è solo la salute del corpo. Davanti alla morte egli deve prepararlo con lo stesso rispetto con cui il chirurgo da informazioni sull’intervento in programma. Se, poi, si possono guadagnare mesi o anni al solo patto che il paziente collabori alle cure, a maggior ragione questi deve essere responsabilizzato e coinvolto in questa ultima battaglia in cui la sicura sconfitta del corpo può coincidere con il successo dello spirito: non dimentichiamo che “agonia” deriva da agone, cioè gara, e non esiste competizione senza la consapevolezza della lotta.

Alsop diceva: al malato bisogna dire la verità, ma non tutta la verità. Un uomo che deve morire, morirà più serenamente se gli si lascia una scintilla di speranza. Dirgli che forse morirà. Magari dirgli che probabilmente morirà. Non dirgli che morirà certamente. Questo atteggiamento potrà indurre benefiche tensioni spirituali oltre che decisioni tempestive, ma eviterà la disperazione. Negare la verità passa per essere un atto umanitario, ma in realtà è inumano perché ammette le dimissioni dello spirito (Gianfranceschi).

In genere i pazienti sopportano bene la verità, specie se dotati di maturità, cultura e spiritualità. La verità sconvolge assai più i familiari.

C’è un solo caso, secondo alcuni autori in cui la verità va sottotaciuta: quando il morente è un bambino. In effetti, alla psicologia infantile dove la fantasia prevale sulla realtà la morte è poco comprensibile.

Mai dire la verità. È la tesi materialistica che, non ammettendo l’aldilà, punta a sostenere la vita fino all’ultimo minuto, anche ricorrendo all’illusione più irragionevole. Secondo questa teoria se la verità va rivelata, ciò non tocca al medico ma ai familiari o al prete. Una bugia pietosa non tradisce la fiducia del medico. Anzi questa fiducia prevede che il medico sia autorizzato a cambiare cure e parole, a propria discrezione, nel vantaggio del paziente. La morale ha una sua gerarchia: il medico deve non fare del male finchè è possibile ( primum non nocere).

In realtà nessuna delle due tesi può dirsi pienamente soddisfacente, specie perché nei rapporti interpersonali, le soluzioni rigide non sono mai ottimali.

Persino il codice deontologico è elastico (art. 30: una prognosi grave può essere tenuta nascosta al malato ma non alla famiglia) lasciando al medico la libertà di decidere. Solo in Svezia esiste una legge, molto recente, che in nome dei diritti del cittadino, condanna qualsiasi bugia dei medici.

Inoltre in medicina, il concetto di verità è ancora tutto da definire. Malattie fino a ieri a prognosi disperata, oggi non sono più inguaribili. Malattie tutt’ora disperate potrebbero non esserlo più domani. L’esperienza, inoltre, ha provato che “tutto è possibile” anche dove l’evidenza clinica e il ben noto comportamento di una certa malattia lasciano pochi dubbi. Insistere che un malato è senza speranza talvolta può essere peggio di un delitto, può essere uno sbaglio.

Più spesso che non si creda la verità è già nota al paziente. Egli ha intuito. Se pone la fatale domanda, lo fa per convincersi più che per apprendere una verità che già conosce.

Infine, teniamo presente che il problema non si chiude al momento in cui la verità viene detta o intuita o fatta capire. La fase successiva è ancora più difficile da gestire: qui scatta un’altra “ora della verità”, questa volta del medico, della sua formazione e della sua dotazione umana. Il paziente informato diventa particolarmente delicato e vulnerabile sul piano psichico. Ha bisogno di sostegno e amore.

Ogni caso dunque va affrontato caso per caso, tenendo conto della personalità del paziente, quale emerge dalla sua storia, dalla sua esperienza di vita. Ci sono pazienti che desiderano essere ingannati ed altri che desiderano sapere. La verità fa bene ad un paziente e male ad un altro: il medico dovrebbe essere in grado di valutare caso per caso.

Il Grief Counseling, è una relazione di aiuto rivolta a persone vicine alla morte e ai loro famigliari e può essere svolta dal counselor che affianca il medico o dal medico-counselor.

In un corso di formazione al grief counseling, oltre che sottolineare gli obiettivi da raggiungere, i procedimenti da seguire, le possibili complicazioni e la valutazione dei risultati, viene rivolta particolare attenzione anche ai vari aspetti della vita, soprattutto affettiva, dei malati e delle persone che li assistono.

La preparazione riguarda infatti anche significati culturali e valori spirituali, atteggiamenti emotivi (ansia, collera, sensi di colpa, di impotenza, di disperazione) e relativi cambiamenti.

Fra gli obiettivi prioritari della formazione c’è il raggiungimento di una competenza relazionale che renda possibile un lavoro interpersonale e di équipe veramente costruttivo tale da aiutare i malati a trovare un significato per la loro sofferenza, una finalità e una direzione dignitose alle sempre più fievoli energie psicofisiche.

Lo statuto di alcune associazioni mediche come quella americana, prevedeva in passato che il medico confortasse anche l’anima del malato; ma è facile immaginare che questo comportamento non sia oggi diffuso, sì che alla nevrosi noogena - come Victor Frankl chiama la sofferenza derivante dal vivere un’esistenza di cui non si scorga il significato "si aggiunge l’ulteriore sofferenza di non trovare un senso alla malattia e al dolore".

In questa prospettiva, che può diventare caotica e disperata, diventa fondamentale l’approccio psicologico umanistico-esistenziale, che riconosce all’individuo la libertà e la responsabilità personale di scegliere come vivere fino in fondo la propria vita. In particolare la logoterapia di Frankel riconosce al paziente (homo patiens) anche la possibilità di scegliere come vivere la malattia e la morte, e quale senso dare all’ineluttabilità. Un sovra-significato derivante dal suo rapporto con la trascendenza.

In conclusione, pur escludendo ogni regola fissa, si suggerisce al medico, una condotta non generalizzata ma sempre propensa a rivelare la verità, ovviamente scegliendo con cura il modo, il momento, le parole migliori, e adeguandosi allo stato emotivo del paziente.

In genere, la verità aiuta a prepararsi al grande viaggio, recuperare i valori dello spirito a non lasciare carichi pendenti in doveri ed affetti, a sopravvivere nella stima dei figli.

La finalità non è più vincere, ma partecipare offrendo il massimo di assistenza e di conforto alla persona seguita, permettendole di capire la sua nuova situazione, rassicurandola e confermandole che non sarà mai abbandonata e che verrà invece privilegiata la qualità della sua vita.


Conclusioni

Da tutte queste considerazioni emerge la necessità di educare i professionisti della salute ai valori della comprensione, della tolleranza, del rispetto cioè ai valori squisitamente etico - umanistici (etica del dubbio e della responsabilità).

Affinché il professionista della salute sia fedele a questi valori, non basta nutrirlo di competenze scientifiche, fargli conoscere la psicologia, renderlo esperto nelle tecniche di comunicazione ma si deve aiutarlo a conoscere se stesso affinché renda fertile le proprie emozioni, renderlo “esperto in umanità”.

Affinché l’umanità e la comprensione reciproca possa attuarsi tra paziente e medico, quest’ultimo deve tener presente i seguenti punti cardine della comunicazione:

1.      chiedere per capire

2.      ascoltare

3.      farsi raccontare

4.      aiutare a capire

5.      partecipare e condividere

Attraverso l’empatia che non è un’abilità ma un’attitudine: nel senso che non si insegna e non si impara ma si può coltivare.

In realtà attraverso un processo di crescita interiore, e di introspezione, di modifica di valori incongrui verso altri più produttivi per il proprio copione di vita anche l’empatia si può imparare attraverso la riscoperta di se stessi.

È quello che è successo a me.

 


Il counseling in una relazione d’aiuto medico-paziente per Daniela

Svolgo questo lavoro da dieci anni, o meglio ho svolto un lavoro per molti anni, ma da qualche tempo non sento di svolgere più un lavoro ma di compiere ogni giorno quello che da sempre era scritto nel mio DNA: sento di avere una vocazione!

Non è stato sempre così. Ma attraverso un processo di crescita personale e di conoscenza di me stessa, dei miei bisogni, delle mie paure e attraverso una ridefinizione dei miei valori posso dire di essere, tra mille difficoltà dove ho sempre desiderato di essere.

Ogni sera, torno a casa dopo una lunga giornata di lavoro, o meglio dopo aver svolto due lavori (uno che mi piace e per il quale mi sento predestinata ed uno che mi consente di vivere), stanca ma appagata perché ho aiutato il mio prossimo nel pieno rispetto della sua storia di vita e della sua persona; ciò contribuisce alla mia felicità.

Ho scelto di mettere quasi sullo stesso piano la mia famiglia e gli altri, anche se non sempre ci riesco, ed a volte il senso di colpa mi pervade; per fortuna dura poco, ormai ho consapevolizzato che la penso un po’ diversamente dalla maggior parte delle persone e penso che il mio essere, e le mie scelte un domani potranno essere un esempio per mio figlio e per gli altri figli che spero la vita mi regalerà.

Ho detto: non è sempre stato così. E lo ripeto a gran voce … perché cinque anni fa sicuramente non avrei considerato quelli che erano i miei desideri più profondi e avrei temuto il giudizio degli altri.

Ho attraversato un lungo periodo di sofferenza interiore, avevo una bassa autostima ero sola anche in compagnia, non riuscivo ad avere relazioni affettive appaganti e vere, e soprattutto non mi dicevo la verità, non provavo rabbia né mi ribellavo ai torti subiti … questo nel tempo ha portato ad ammalarmi nel vero senso del termine.

Ma come spesso si dice nella malattia c’è la cura, perché mi ha permesso di conoscere il fondo e quindi di rialzarmi.

Il counseling individuale e di gruppo ha permesso pian piano di conoscermi, di portarmi a nuova vita senza dimenticarmi di quella vecchia ( da dove sono partita) e di apprezzare ciò che di buono avevo fatto e ciò che forse doveva essere cambiato fin dalle fondamenta … compreso il mio lavoro.

Un lavoro probabilmente imposto, ma che alla fine ha trovato nel mio cambiamento la sua ragion d’essere.

Fin da quando ero bambina non ho mai pensato di poter svolgere altro lavoro se non quello del medico; fin da quando ricordo, si parlava solo del ramo della medicina che avrei potuto scegliere non del se avessi potuto scegliere un altro lavoro. Sono nata, infatti, in una famiglia dove non esisteva altra professione, né un avvocato, un insegnante o altro, quindi appariva naturale che il destino per me fosse quello. Mi viene una battuta da parte della mia ombra “certo poteva andarti peggio, di che ti lamenti”.

Sono cresciuta continuamente a contatto di medici, ospedali, pazienti e sicuramente ciò mi ha condizionato ed influenzato profondamente, sia in senso positivo che in quello negativo. Credo, infatti, che il mio carattere malinconico derivi sia dalla mia storia di vita, dalla solitudine ma anche dall’intimo contatto con la sofferenza umana.

Ho avuto ed ho, come modello di riferimento mio nonno.

Lo vedo ancora davanti agli occhi: curvo, malato ma con una volontà, una conoscenza della medicina nella sua totalità che pochi hanno che credo sia quasi impossibile avere e una dedizione al lavoro che non ho mai visto in nessun’altro. Sicuramente ha svolto la professione con atteggiamento paternalistico ma all’epoca era così. I pazienti gli erano grati di una gratitudine oggi abbastanza inusuale, non dimenticherò mai il pasticciere al quale aveva salvato una gamba che stavano per amputare, che fino all’ultimo giorno della sua vita, per trent’anni, gli ha mandato i dolci ogni settimana anche quando non aveva più la pasticceria. Come i grandi geni o pittori aveva qualche neo, era molto pessimista e non ricordo di averlo mai visto felice nella sua vita familiare, era inoltre molto difficile il confronto con lui dal momento che nessuno era alla sua altezza. Si è sacrificato per la sua professione per tutta la vita, ma mi ha trasmesso l’amore per la medicina e di questo gli sarò sempre grata.

Alla fine, nonostante queste premesse un po’ per scelta ed un po’per il destino mi sono iscritta ad odontoiatria, una facoltà che ti consente di raggiungere successo e gratificazioni economiche; durante l’università il mio “io” è rimasto placido e tranquillo fino alla laurea, per poi scalpitare subito dopo.

Non ho mai fatto l’odontoiatra se non per quel poco che oggi mi consente di vivere ma ho scelto di occuparmi di medicina orale: una branca dell’odontoiatria ma più precisamente a cavallo tra la medicina e l’odontoiatria che si occupa dei tumori del cavo orale, patologie spesso incurabili, di patologie autoimmuni cutanee e mucose e di malattie psicosomatiche che coinvolgono il cavo orale.

Probabilmente la storia di ognuno di noi è scritta ma occorre saperla svelare e prendersene cura. Chi avrebbe potuto sapere allora che avrei intrapreso un cammino di crescita che attraverso la conoscenza di me stessa mi avrebbe permesso di entrare nelle storie di vita di tanti altri e non solo nella storia di malattia.

Ma andiamo per gradi, all’inizio ho svolto questo lavoro come un salvatore, pensando di prendermi cura degli altri senza prendermi cura di me stessa, e mi sono tuffata nel lavoro pensando di poter superare attraverso l’impegno le mie difficoltà di vita.

Quando avevo un dispiacere, un qualcosa che nella mia vita non andava bene, mi buttavo a capofitto nel lavoro, e cercavo di riempire il mio vuoto interiore; per un po’ è andata bene ma alla fine il carico emotivo che i pazienti mi richiedevano che poggiava su un equilibrio instabile è crollato. Non riuscivo più ad essere un sostegno, mi fondevo con la loro sofferenza e la univo alla mia con risultati ovviamente disastrosi. Anche se mi impegnavo al massimo tutti loro coglievano che non c’era integrazione tra ciò che dicevo e facevo, e ciò che ero.

Il lavoro spirituale che ho svolto in questi anni, oggi, mi consente di entrare in contatto autentico con il paziente e di sostenerlo, di riuscire quando possibile a trasmettergli un senso in quello che sta vivendo, a volte di accompagnarlo alla morte senza essere sopraffatta da essa.

Per l’affinità con quello che ho vissuto, mi occupo di un Ambulatorio sul Dolore cronico oro-facciale che si interessa prevalentemente di una malattia psicosomatica chiamata “sindrome della bocca urente ”, caratterizzata da bruciore e dolore urente alla bocca in assenza di malattia che insorge solitamente dopo un dispiacere, un periodo di vita difficile o un trauma. Perché la bocca viene colpita? Credo perché sia il nostro organo di relazione con il mondo circostante, una porta, che momentaneamente il paziente vuole chiudere.

È un campo che richiede competenze psichiatriche perché spesso questi pazienti nascondono malattie anche gravi e se non adeguatamente trattate possono sfociare verso la depressione.

Attraverso le loro storie di vita, ho compreso ancora di più me stessa ed ho ridimensionato il mio sé onnipotente sempre al centro del mondo, e le mie problematiche quotidiane, questo mi ha reso più felice e più appagata nella mia vita.

Ritengo che i risultati soddisfacenti ottenuti con questi pazienti, persone prima di tutto, non sia legato ai farmaci ma alla qualità della relazione che sono riuscita ad instaurare e che spero migliorerà sempre di più. Ogni momento mi metto nei loro panni, sento le loro paure e cerco di dare le risposte che io vorrei sentire e cerco di comportarmi come vorrei che un medico si comportasse con me.

Quando da medico sono stata paziente, in particolare durante la mia gravidanza, la lunga degenza in ospedale mi ha permesso di entrare in contatto con numerosi medici ed infermieri che sono stati spietati, disumani, pessimisti nei miei confronti; non ricordo di aver ricevuto un sorriso durante tutti quei mesi né un sostegno o una parola di conforto alle mie lacrime. Ma questo è stato un grande insegnamento per me, è stampato nella mia mente, affinché anch’io non commetta gli stessi errori; capita anche a me di essere triste o nervosa ma cerco per quanto possibile di reagire alla tristezza ed al nervosismo con positività ed altruismo e di considerare i miei problemi in relazione a quelli degli altri, ciò mi aiuta a ridimensionarli e a trovare ogni giorno la forza per svolgere una professione d’aiuto.

Ringrazio la vita e la mia leggenda personale di avermi aiutato a realizzare tutto ciò!

 


Le storie di vita

Le storie di vita che ho ascoltato e che ascolto, ogni giorno, sono nella mia memoria costantemente e indelebilmente; storie di sofferenze così profonde che mi hanno annichilito e spesso lasciato senza parole.

La storia di Domenico, tossicodipendente per 20 anni, che dopo aver trovato la forza di affrontare i suoi problemi, di entrare in comunità e di uscire dal tunnel della droga; dove non lo aveva ucciso la droga lo stavano per uccidere i medici diagnosticandogli un tumore al colon che non aveva e per il quale era stato programmato un intervento e la chemioterapia. La sofferenza degli ultimi anni, il suo dolore non poteva fare altro che esplodere sul suo corpo e sull’unica parte che lo metteva in relazione con il mondo.

La storia di Andrea, 18 anni, alcolizzato da quattro anni, che per tutta la vita si era sentito inadeguato, inabile come essere umano, senza sogni o speranze che si sentiva se stesso solo quando tutti i suoi freni inibitori venivano meno grazie all’alcool.

Il suo sintomo? Un nodo alla gola, quasi a testimoniare l’impossibilità di digerire ciò che gli altri gli avevano fatto e ciò che lui continuava a fare a se stesso.

La storia di Giulia, che aveva assistito alla morte del marito nel corso di una sparatoria per rapina, che si era chiusa nel suo mondo ed aveva preferito non elaborare mai questo lutto ma accantonarlo in un angolo della sua anima. Ovviamente il dolore, dopo alcuni anni era esploso e si era manifestato con dolori in tutto il corpo per la mancanza di qualsiasi speranza nel presente o nel futuro. “Ella viveva attaccata al passato a ciò che era stato e che non era più.”

La storia di Anita che credeva di avere una malattia infettiva grave perché quando faceva l’amore con il suo amante, nei giorni successivi sentiva un bruciore alla bocca ed agli organi genitali e non si era mai domandata se il suo vivere nella menzogna fosse la reale causa della sua sofferenza.

La storia di Claudia, che ogni giorno faceva un esame diverso alla ricerca di quel tumore che non trovava ma che era convinta di avere o meritare, che cercava dovunque la propria infelicità quasi per esorcizzare i suoi sensi di colpa.

                       

 
Potrei parlare di mille storie, perché le malattie spesso arrivano dove la mente non può, …

Daniela Adamo



[1] Stato dell’IO: un insieme di comportamenti, pensieri ed emozioni attraverso cui si manifesta la nostra personalità in un dato momento.

[2] Art 32: il medico non deve intraprendere attività diagnostica e terapeutica senza acquisizione del consenso informato del paziente. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Art 34: il medico deve attenersi nel rispetto della dignità, della libertà, e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi liberamente espressa dalla persona.

[3] Tratto da: Il Buddha e l’arte della guarigione, pag. 154, qualità ed etica del medico, Ed. Rizzoli